Il Codice dei medici e il rapporto tra medicina e morte
di Antonio Panti
05 MAG -
Gentile Direttore,
recentemente è ripresa la discussione sul suicidio assistito in attesa che il Parlamento legiferi in ottemperanza all'ordinanza della Corte Costituzionale. Pur nel convincimento che difficilmente si addiverrà alla promulgazione di una legge, desidero intervenire sia per esporre quel che la FNOMCeO ha già elaborato sul tema sia per tentare un chiarimento sul piano deontologico.
Il gruppo di lavoro della commissione deontologica della Federazione ha elaborato una prima bozza di documento di indirizzo, predisponendo una notevole quantità di materiale elaborato a più mani, quale supporto delle decisioni della Federazione, e dedicato all'esame delle problematiche poste sia dalla L.219/17 che dalla L.38/10 sulle cure palliative.
In un suo recente articolo Ivan Cavicchi, esortava la FNOMCeO a intraprendere una strada che in realtà è già stata percorsa per un bel tratto; assicuriamo quindi che la riflessione è assai avanzata. Non si è ritenuto opportuno pubblicare alcunché perché il documento del gruppo di lavoro non può essere altro che un testo aperto dato che la decisione finale sulla questione deontologica del suicidio assistito spetta al Consiglio Nazionale. La Federazione inoltre è in contatto col Comitato Nazionale di Bioetica al fine di estendere il confronto.
Tutto ciò non osta a proseguire la discussione. Dando per scontato, in un caso siffatto, di rivolgermi a chi già conosce i fatti (il suicidio in Svizzera del Dj Fabo, l'autodenuncia di Marco Cappato che lo aveva accompagnato, la remissione alla Corte da parte del Tribunale milanese, la questione posta con l'Ordinanza 207/18 della Corte Costituzionale sul necessario completamento della l. 219/17 per rispondere alle richieste di autodeterminazione anche della propria morte da parte di chi non intende sopportare le conseguenze del suo male, al di là dell'offerta di cure palliative o della sedazione profonda). Invero la Corte già prevede le condizioni cliniche nelle quali tale richiesta ha senso e lumeggia anche la questione dell'obiezione di coscienza.
Resta aperto il problema di fondo.E' evidente che non può essere altro che una commissione medica a confermare la richiesta del cittadino, come non può essere che un medico a prescrivere lo strumento del suicidio. Nell'Ordinanza della Corte di parla di suicidio assistito e non di eutanasia; si porta a logica conclusione sul piano etico e giuridico il valore che oggi si dà all'autodeterminazione del cittadino. Ogni persona deve poter decider per sé anche la propria morte, ovvio quando ciò è possibile.
In questo quadro, come si va delineando, la prima soluzione, alla tedesca, è lasciare immutato l'articolo 17 del Codice Deontologico che vieta al medico di "favorire" oltre che di "provocare" la morte. Un contrasto arduo da sostenere se il Parlamento decidesse altrimenti, dovendosi allora sanzionare un medico per aver ottemperato a una norma di legge.
La seconda soluzione è quella sostenuta su Quotidiano Sanità, in pratica prevedere, fatta salva l'obiezione di coscienza del medico, una sorta di non punibilità per eccezione, quindi riconoscendo esplicitamente nel Codice che l'evoluzione della medicina e dei costumi possono condurre il medico a corrispondere alle esigenze del paziente e al decorso della malattia.
Questa soluzione, certamente la più sostenibile, rappresenta una sorta di riduzionismo giuridico:non affronta il vero nodo della questione, cioè un nuovo rapporto deontologico tra medicina e morte. Affrontare la questione da questo punto di vista significa accettare che la autodeterminazione della persona non si arresti di fronte alla propria morte. E anche che la società ha il diritto di chiedere alla medicina, le cui conquiste sono responsabili di uno stato di vita insopportabile o di una terminalità inaccettabile per il soggetto, di riparare a questa situazione che la persona vive come torto.
La deontologia considera l'accanimento terapeutico come un vero errore, una futilità e, nello stesso tempo, obbliga i medici a responsabilizzarsi di una morte quanto più serena o meno sofferta possibile; in una parola a assistere il paziente fino alla fine della vita e considera un comportamento gravissimo l'abbandonarlo.
La medicina ha sempre tentato di combattere le malattie ma non ha mai escluso la morte.La medicina aiuta tutte le forze che si oppongono alla morte ma non può evitarla. Ma se il paziente ha il diritto, ormai acclarato, di interrompere o non iniziare le cure come impedirgli di decidere la fine della vita?
Ultima osservazione. In questi casi si evoca lo spettro del "sentiero scivoloso", lo slippery slope. Ma il punto fondamentale è che stiamo parlando del prevalere della decisione del cittadino non di quella del medico o di qualsiasi altro decisore, (ad esempio Hitler); inoltre la stessa Corte stabilisce confini clinici ben definiti, accetta l'obiezione di coscienza del medico e conferma che l'interesse in gioco è tutto e solamente del singolo non della comunità.
Questo è un punto di vista che, a mio avviso, nel tempo diverrà ovvio, intanto onorevoli compromessi possono rappresentare una soluzione accettabile.
Antonio Panti
05 maggio 2019
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore