Può esistere una “coazione gentile”?
di Gemma Brandi
10 MAR -
Gentile Direttore,
il 7 marzo si è svolta a Roma la
Convention di Diritti in movimento (DM), al cui interno era stata affidata a chi scrive una relazione con questo titolo. Nel 2008 coniai la espressione
coazione benigna, contrapponendola a
coazione maligna. Paolo Cendon ha provato a tradurre la mia idea in
coazione benevola o
malevola, ma travisandone in questo modo il senso, in quanto sono gli strumenti a offrirsi a una declinazione benigna o maligna - vedi la contrapposizione tra amministrazione di sostegno e interdizione, potenzialmente benigna la prima, irrimediabilmente maligna la seconda - mentre benevolo o malevolo è l’atteggiamento che un uomo ha rispetto a qualcuno o qualcosa: in altre parole, per quanta benevolenza chiunque intenda mettere in campo, il fatto che ricorra alla interdizione per proteggere una persona con limiti della capacità di agire, non porterà che a un esito maligno.
L’anno passato la
European Psychiatric Association (EPA) ha fatto ricorso alla espressione
gentle coercion che incrocia la gentilezza su cui DM intende costruire le proprie battaglie civili, ammettendo la possibilità che una imposizione sia gentile. La espressione
gentle coercion non potrà/dovrà essere bandita dal programma di DM.
Senza coazione gentile non troverà spazio il Progetto esistenziale di vita, altro cavallo di battaglia di DM. Certo è più accattivante parlare di libertà, apertura, promozione dell’individuo, ma nel farlo occorre tenere a mente che il troppo facile non ha futuro e che non siamo qua per piacere ad ogni costo, bensì per occuparci di una sfida difficile e affascinante come quella di dare risposta al dolore delle persone, di trasformare quel dolore in speranza. La fragilità ha una straordinaria gamma espressiva e quella della trasgressione patologica, dell’
acting out, della aggressività, della opposizione a ogni forma di aiuto, disegna un profilo che porta il soggetto a essere sempre meno socialmente compatibile.
Il peccato originale della Legge 180 - escludere dai compiti della Salute Mentale tossicodipendenze, pazzia connessa con il crimine, demenze senili, handicap psichico - in parte rimesso grazie alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e delle Case di Cura e Custodia, non può essere inveterato oggi da una inclinazione a misconoscere la sofferenza psichica grave e non
compliant e il bisogno di progetti esistenziali di vita dei folli autori di reato o in procinto di commetterne qualcuno.
E invece questa maledetta mela continua a tentare Eva, la psichiatria, che offre ad Adamo, la giustizia, il frutto da mordere.
Oggi si insiste tenacemente addirittura per cancellare con un colpo di mano l’istituto della incapacità di intendere e di volere del malato di mente, restituendogli il diritto alla pena, senza comprendere che il carcere non potrà mai essere un posto adatto al folle, perché la coazione che vi si esercita risponde ad altro mandato e non è declinata in maniera gentile.
Procedere a un colpo di spugna trasformerebbe quel peccato originale nel definitivo assassinio della presa in carico dell’individuo che vive e fa vivere situazioni di pericolo e si oppone alle cure, non riconoscendo la propria sofferenza e ritenendo debita quella che infligge. Il vero festival dell’abbandono con tanto di carri da esibire nel prossimo corso mascherato! E invece occorre rendere più saldo il legame tra incapacità e responsabilità, dando vita a nuove endiadi ossimoriche, quale la proibizione che consente, ottima per descrivere il movimento che si determina con gli strumenti della
gentle coercion. Servono anticonformismo, rinuncia ai tratti vanesi di un facile narcisismo, creatività al servizio della sfida di restituire speranza ai fragili.
TSO gentile, che significa comunque la disponibilità ultima a ricorrere alla forza, ma una forza dosata, fraterna, attenta, sorridente, rassicurante, limitante, e Amministrazione di sostegno, sono gli strumenti che aiutano questo movimento verso la riconquista di una compatibilità sociale per chi la avesse smarrita o fosse sul punto di perderla.
Qualche giorno fa ero nella sala di imbarco di un aeroporto, seduta accanto a una bambina sola con le sue valige, una fanciullina in erba dall’aria simpatica. Di lì a poco sarebbero spuntate una nonna e una mamma francesi alle prese con il fratellino della piccola, evidentemente affetto dalle conseguenze di un idrocefalo. Trattenerlo, evitare che si lanciasse verso la pista, era un lavoro.
Quella mamma lo faceva con la forza disperata di un amore che mi ha colpita profondamente. Cercava di richiamare l’attenzione del figlio guardandolo negli occhi, ma anche dandogli degli ordini fermi e garbati. Il bambino un po’ rispondeva e un po’ no. Siamo saliti in aereo e di lì a un paio d’ore il grosso velivolo è stato percorso a tutta birra dal bimbo, inseguito dalla solita madre premurosa.
La donna faceva di tutto per ridurre il disturbo recato dal suo frugoletto, per trattenerlo, per dissuaderlo dalle sue frenetiche pretese, quando a un certo punto egli ha guadagnato la porta della cucina del velivolo. Ero poco lontano e l’ho vista prenderlo in braccio, metterlo seduto su un mobile e di nuovo tentare di richiamare la sua attenzione visiva, senza successo.
Una hostess l’ha guardata con disapprovazione dicendole, in maniera apparentemente lucida e ferma, in realtà con una raggelante indifferenza, che il ragazzino non poteva stare lì. La signora allora lo ha fatto scendere e si è accovacciata accanto a lui, a meno di un metro da me. Volevo alzarmi e darle una mano, ma non era il caso perché non avrei potuto fare molto, visto che viaggiare mi indebolisce, e poi contavo sulla sua forza e sulla convinzione di quella donna di riuscire ad avere una presa sul piccolo.
Ho incrociato lo sguardo del bambino mettendogli a disposizione la persuasione e la comprensione che sentivo di provare, ed è allora che la mamma ha ricambiato il mio sguardo con un sorriso di tutti i lineamenti, forse avvertendo una intesa necessaria dopo la spietata proscrizione di cui era stata vittima. Si è trattato di un sorriso avvincente come l’abbraccio con cui teneva avvinto a sé il figlio. Sono scomparsi dal mio campo visivo, ma non dalla mia mente. Ho pensato che fra qualche anno quella donna non potrà fare tutto da sola, che avrà bisogno di essere aiutata, compresa e di condividere con le istituzioni il problema di suo figlio.
Qualcun altro dovrà trattenerlo e volergli bene come lei, certo un bene professionale, non materno, ma niente che somigli al freddo e sprezzante allontanamento da parte della hostess, alla negazione del bisogno di collaborare nella ricerca di un limite gentile. Chi non capisce questo non capisce proprio niente, come direbbe mio nonno Michele. Avrebbe da farsi bello come vuole con le penne del pavone, ma si vedrebbe lontano un miglio che mente.
Quanto alla interdizione, questa è proprio il contrario di ciò che si intende per
gentle coercion, ma spesso è il traguardo di storie di sopraffazione e di abbandono, anche affettivo. Penso a Marco, chiamiamolo così, rampollo di una dinastia industriale, schizofrenico, a lungo inabilitato e quindi proposto dalla famiglia per una interdizione, infine amministrato. Lo assiste privatamente un organo poi messo
à la six quadre deux fuori legge. E così Marco si trova ad affrontare l’urgenza di una nuova collocazione.
Si imbatte in una persona che collabora con il suo amministratore di sostegno -noto professionista indicato dalla famiglia e residente altrove- la stessa che sarà in grado di esercitare su di lui quella coazione gentile che lo porterà a fare in breve passi da gigante. La figura riabilitativa, ahilei, non troverà la collaborazione che richiede a vari psichiatri, pubblici e non, chiamati in causa quando l’uomo comincerà a infastidire i vicini con musica ad alto volume, grida notturne e odori spiacevoli.
Quegli psichiatri sosterranno imperterriti che il malato di mente ha il diritto di fare tutto ciò che vuole in casa propria, che le sue scelte domestiche, ancorché problematiche per il prossimo, sarebbero innegabili libertà civili. No, nessuno può recare impunemente disturbo gratuito al prossimo. E infatti, una vicina avvocato porta il caso in Procura e Marco con la sua benefattrice - ironia della sorte! - finiranno sotto inchiesta.
E cosa deciderà il Giudice Tutelare, mentre il magistrato di merito procrastina la sentenza, anche a fronte di una CTU che parla di adeguatezza degli interventi riabilitativi messi in campo per lui, della sua incapacità di intendere e di volere e della assenza di una pericolosità sociale (per inciso, nel frattempo qualcuno era intervenuto a integrare cure psichiatriche)? Ebbene il GT chiederà la sua interdizione. Il processo penale è ancora aperto ed è avviato un giudizio di interdizione. Roba da matti? No, roba da abbandono, superficialità, noncuranza, ignoranza. Roba da hostess di un volo notturno sull’oceano. Pane per i denti di DM.
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
10 marzo 2019
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