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Italia, un Paese sempre in ritardo sui tempi

di Ivan Favarin

16 FEB - Gentile Direttore,
Napoleone Bonaparte liquidò così gli Austriaci: “Toujours en retard: d'une année, d'une armée et d'une idée.” Un onesto e disincantato osservatore potrebbe dire oggi la stessa cosa dell’Italia: sempre in ritardo. Ma di decenni. I soldi mancano, e il debito pubblico si aggrava, complici le scelte politiche e le incrostazioni strutturali, il tempo e gli interessi passivi.
 
Le idee non mancano, anzi, siamo un Paese troppo fantasioso, come il vestito di Arlecchino. Troppe iniziative isolate però non danno seguito a nessun progetto di ampio respiro. Avere idee è una cosa, organizzare è ben altro.
 
Le armate oggi non vanno più di moda come sfoggio di potere - non siamo in piazza Rossa a Mosca. Però potremmo pacificamente estendere il concetto di “armata” a tutti gli organi ed enti statali e locali che ci garantiscono i servizi essenziali: sicurezza, istruzione, ricerca, sanità, ecc. 
 
Un’armata di professionisti che brilla - in sanità pubblica soprattutto per un rapporto costi/benefici veramente da primato. Ma saper fare di necessità virtù non è propriamente “essere avanti”. A me in Gran Bretagna all’università ripetevano sino alla nausea: “in un mondo in rapido movimento, stare fermi equivale a restare indietro”.
 
Le posizioni conquistate in sanità non sono baluardi da custodire come monumenti, ma trampolini da sfruttare con slancio. Sono tornato in Italia e mi è sembrato di rientrare in un museo. Guai a spostare un pezzo o ridiscuterne l’utilità, persino per i giovani. Gravi crisi economiche ci attanagliano? In Italia si pensa a “salvare il salvabile”, non a riformare il sistema. Eppure autorevoli voci ci ammoniscono da tempo.
 
Qualcosa si muove, ma quante divisioni nell’armée dei sanitari! Sono stato abituato (sempre in Gran Bretagna) a pensare ai prodotti/servizi partendo alla domanda. All’opposto, difendere a oltranza prerogative professionali e strutture esistenti significa costruire partendo dall’offerta. Servono ancora gli ospedali e i servizi come li abbiamo conosciuti sinora? Gli stessi profili professionali di chi ci lavora non potrebbero forse evolvere diversamente, sin dalla formazione? Chi di noi si confronta davvero con i migliori maestri internazionali e aspira a superarli?
 
Certo è facile cambiare una procedura aziendale, ripensare un percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale. Ma tutte le persone e le strutture che li applicano, sono davvero un passo avanti? E cosa stiamo facendo davvero per educare la popolazione alla salute, onde evitare di incrementare il ricorso alle angioplastiche primarie (tanto per citare un disastro annunciato)? È meglio avere una rete cardiologica d’eccellenza o avere un cuore eccellente?
 
La verità è che siamo così compiaciuti e affezionati ai nostri antri muscosi e ai fori cadenti da bearci di buone prestazioni nelle classifiche dei sistemi sanitari senza temere di essere già superati.
 
L’innovazione in Italia è sporadica. Picchi di modernità non bastano a svecchiare un sistema o un edificio. Le statistiche dicono che il SSN deve far fronte alle esigenze di un Paese che invecchia: io rincaro la dose dicendo che siamo vecchi già da giovani, poco propensi a ripensare e rivedere le nostre sicurezze. Viviamo di conquiste del passato, ma senza lo spirito che animò i pionieri di allora. 
 
Qualcosa si è mosso con la crisi del decennio scorso, ma è stato un adeguamento reattivo e non proattivo. Sono state fatte scelte coraggiose come non accadeva da anni, più che altro mirate al contenimento della spesa - non certo paragonabili alla coraggiosa creazione del NHS dalle macerie del  dopoguerra da parte di Beveridge e Churchill. 
 
Per Napoleone un anno di ritardo era un’onta. Con decenni di inerzia e una senescenza programmata, per l’Italia essere “solo” un anno in ritardo sarebbe già una conquista.

Ivan Favarin
Infermiere

16 febbraio 2019
© Riproduzione riservata

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