Caso Pizza/Venturi. Sì al confronto, no alle guerre di religione sulle ambulanze demedicalizzate
di Dario Valcarenghi
08 NOV -
Gentile Direttore,
il contenzioso Pizza-Venturi ha suscitato un ampio e aspro confronto e non poteva forse essere diversamente in un Paese che ama dividersi su posizioni identitarie e/o di principio. In merito a questa vicenda mi permetto di fare alcune considerazioni/riflessioni, sia nel metodo e sia nel merito.
Nel metodo, l’apertura di un procedimento disciplinare per affrontare un problema sicuramente sensibile per la professione medica (e di riflesso anche per quella infermieristica), ma anche complesso per le sue notevoli implicazioni etico-culturali e professionali, non mi sembra la soluzione migliore. Ha certamente riportato l’attenzione su un problema, che sarebbe stato forse più opportuno provare a risolvere attraverso il confronto fra le parti e anche ragionando sulle conseguenze per il funzionamento dei servizi interessati.
Nel merito, un professionista sanitario che svolga anche funzioni politico-amministrative mantiene una responsabilità deontologica professionale, ma assume anche nuove responsabilità verso la propria comunità di riferimento per il nuovo ruolo ricoperto. Le responsabilità politico-amministrative richiedono capacità di mediazione fra domande e interessi differenti che si devono comporre con l’obiettivo di assicurare i massimi benefici possibili per i cittadini (o almeno così ci si augura). Agire, di fatto e indirettamente, contro un atto amministrativo regionale utilizzando la leva deontologica nei confronti di un proprio iscritto, ma nell’esercizio delle sue attuali e preminenti funzioni politico-amministrative, non mi pare quindi cosa molto appropriata.
Con quest’approccio si pongono i valori e le norme di comportamento di un gruppo professionale (pur importantissimo per la comunità) di fatto sopra norme e regolamenti regionali e statali, che dovrebbero essere a tutela d’interessi più generali. Nel caso che un Ordine Professionale si ritenga leso, soprattutto se a ragion veduta, da una norma amministrativa può sempre intraprendere iniziative culturali, giuridiche o politiche per cercare di modificarla. Con iniziative come quella di Bologna, i problemi a mio avviso si complicano e a qualcuno potrebbe persino venire la balzana idea che per l’attività politica sarebbe preferibile non avere appartenenti a professioni con un particolare codice deontologico perché non si avrebbe la garanzia che questi professionisti saprebbero anteporre gli interessi generali a quelli di una parte.
Prendendo poi in esame i problemi sottesi a questa vicenda (servizio 118 e protocolli infermieristici) ci sono comunque altri elementi da considerare. Un approccio identitario-deontologico, se rigido, porta a dedurre che solo un medico fisicamente presente possa prescrivere e praticare terapia e/o manovre salva-vita. Questa impostazione è nei fatti già contraddetta da alcune norme giuridiche, dall’agire consolidato di molte esperienze per l’emergenza-urgenza territoriale, dalla diffusione di strumenti (defibrillatori) e di tecniche di sostegno salva vita fra la popolazione e altro ancora.
Anche in ospedale, dove la presenza di medici di varie specialità è prevista per molte ore, vi possono essere specifiche situazioni da gestire in temporanea assenza fisica del medico. Lavorando in un reparto ospedaliero, in passato e soprattutto di notte, mi è capitato di dover gestire le fasi iniziali di una situazione acuta non avendo il medico presente (essendo impegnato in altre urgenze), ma avendo il suo supporto e la sua guida per via telefonica. Sono situazioni che ritengo non siano così improbabili anche oggi, con la nota mancanza di risorse professionali dei nostri ospedali. Situazioni gestibili grazie alle diverse specifiche competenze e ai rapporti di collaborazione e fiducia fra professionisti che per fortuna e di solito si creano nei contesti di lavoro.
Nei servizi per l’emergenza e urgenza (come in altri) non è in discussione il “sapere guida” che è quello della medicina e quindi del medico che se ne fa interprete, ma si evidenzia l’importanza di prevedere anche forme operative flessibili che tengano conto della variabilità e di un alto grado d’imprevedibilità delle situazioni da affrontare, oltre che dei cambiamenti in atto nel sistema delle professioni sanitarie e nel SSN.
Problemi su cui intervenire con consapevolezza, intelligenza, concretezza e possibilmente anche con capacità visionaria. A tal fine, credo che possa essere utile anche un confronto con quello che avviene in altri Paesi. Lavoro da alcuni anni in Canton Ticino (CH) che ha un buon sistema per l’urgenza pre-ospedaliera, con una buona organizzazione e molte risorse dedicate. Eppure anche in questo contesto, l’organizzazione degli interventi prevede livelli articolati di risposta con una diversa composizione professionale delle equipe di primo soccorso. Solo in alcune è prevista la presenza di un medico e anche qui si fa riferimento a centrali operative e a protocolli d’intervento. La figura di riferimento da assegnare alle autoambulanze è il soccorritore diplomato che non è un infermiere e ha una formazione specifica della durata di tre anni. Nel caso vi siano infermieri devono aver comunque fatto una formazione specifica aggiuntiva rispetto al loro titolo professionale di base. Entrambe queste figure (soccorritori e infermieri), con un diverso grado di autonomia, operano sul campo legittimati da precisi protocolli definiti “atti medico delegati dell’emergenza pre-ospedaliera”, che possono essere modificati nel tempo nel caso si riscontrino incidenti critici o nuove evidenze.
Pur avendo probabilmente le risorse per farlo (almeno sino ad ora), quasi nessuno ipotizza di avere un medico (o un infermiere) su ogni unità di soccorso ritenendolo forse uno spreco di risorsa professionale in rapporto al numero e alla tipologia prevalente degli interventi da fare. Se però, in conformità a feed-back ricevuti, si rilevasse la necessità di cambiare le procedure operative e/o le risorse assegnate, con approccio molto pragmatico, tale cambiamento sarebbe probabilmente fatto pur mantenendo un forte controllo sui costi. In questo diverso ambiente culturale e professionale, con i suoi specifici problemi, una polemica come quella di Bologna sarebbe però vissuta come un po’ surreale.
Per quanto riguarda la possibilità per gli infermieri di prescrivere esami, controlli o alcuni farmaci in relativa autonomia, essa è ormai una realtà in altri Paesi a sanità avanzata. In molti Stati Americani, in Australia, in Canada e in diversi Paesi Europei (17 secondo i dati presentati a un recente convegno a Berna) esiste la figura del “Nurse Practitioner” che ha questa facoltà prescrittiva, spesso anche pienamente riconosciuta a livello giuridico. Sono infermieri con una formazione avanzata che acquisiscono competenze tali da poter eseguire esami, controlli e prescrizioni di alcuni farmaci per specifiche categorie di pazienti. Questo parziale allargamento di competenze verso attività tradizionalmente mediche è comunque di norma concordato e condiviso con i medici specialisti dei vari settori. Ne integra l’azione clinica, ma non è assolutamente in sostituzione del loro ruolo.
Personalmente non sono entusiasta di questa evoluzione, avendo un’idea di assistenza infermieristica più orientata allo sviluppo di altre competenze professionali, come avevo cercato di descrivere con un mio precedente intervento (
QS del 1/05/2016 – U
n’idea di assistenza infermieristica). Un’idea la mia, oggi più vicina al ruolo descritto in letteratura come “Clinical Nurse Specialist”.
Questi infermieri di pratica avanzata sono comunque già numerosi nei Paesi citati e il loro trend è previsto in aumento. I confini fra le diverse professioni sanitarie stanno tendenzialmente diventando meno rigidi e più permeabili, sia fra medici e infermieri e sia fra infermieri e altri operatori. In tutto ciò vi sono sicuramente dei rischi, ma anche delle opportunità che sarebbe bene governare nel fondamentale interesse delle persone di cui ci dobbiamo prendere cura e nel rispetto delle “competenze core” di ogni Professione.
Una cosa da fare, parlando di servizi 118 (come di altri), è di evitare di farla diventare una guerra di religione e di non saper ricercare e condividere soluzioni possibilmente basate su dati. Abbiamo servizi per l’emergenza-urgenza attivi da anni. Partiamo da qui. Quali sono i loro risultati? Vi sono state situazioni in cui non si è riusciti a salvare le persone soccorse e perché? La collaborazione fra medico di centrale e infermiere di unità mobile quando è stata poco performante? In quante e quali situazioni la presenza del medico è stata indispensabile? E ancora … qual è la permanenza media in tali servizi dei vari professionisti sanitari?
Porsi queste e altre domande, cercando le migliori risposte possibili, ci aiuterà a mantenere o migliorare gli attuali standard di questi servizi, consapevoli che non si potrà probabilmente fare con molte risorse aggiuntive, vista l’attuale situazione economico-finanziaria del nostro Paese e le miopi politiche di de-finanziamento attuate negli ultimi anni.
Un’altra cosa che possiamo fare è valutare con equilibrio eventuali episodi negativi (che purtroppo non credo potranno mai essere ridotti a zero) per non creare discredito sull’operato dei professionisti sul campo (alle condizioni a loro date) e creando insicurezza nella popolazione. Mi riferisco al recente e infausto episodio accaduto a Chiavenna, in cui sono state fatte alcune valutazioni ancora prima di analizzare cosa sia effettivamente successo e sono state ipotizzate soluzioni, ma con pochi elementi per affermare che avrebbero potuto ragionevolmente produrre un esito differente in quello specifico caso.
In situazioni simili, sarebbe opportuno prima capire e poi, nel caso vi siano state mancanze o un deficit di competenze, pensare al modo migliore per correggerle nello spirito che ho cercato di indicare sopra. Non salveremmo sempre e comunque tutte le vite, ma avremmo nel tempo un sistema d’intervento sempre più efficace e performante e credibile agli occhi dei cittadini che a quei servizi fanno affidamento.
Alla luce di queste mie considerazioni, mi auguro che anche nella vicenda di Bologna si trovino soluzioni condivise ponendo al centro i bisogni/problemi dei cittadini di cui tali servizi si devono occupare, con un approccio pragmatico e nella consapevolezza che i sistemi sanitari e le professionalità stanno inevitabilmente cambiando. Confrontiamoci e impegniamoci a farli cambiare in meglio.
Dario Valcarenghi
Infermiere
08 novembre 2018
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore