Osteopatia sì, ma ai migliori livelli di formazione
di Luciano Doniaquio
12 GIU -
Gentile direttore,
ho apprezzato molto le parole del Ministro Lorenzin pronunciate in occasione di un recente congresso. Essa ha riferito che la regolamentazione della figura dell’osteopata comporti una verifica delle competenze formative anche in considerazione della norma europea CEN.
Condivido pienamente che le norme europee e le legislazioni dei Paesi vicini non possano essere eluse, occorrendo garantire ai nostri professionisti la possibilità di lavorare all’estero e vivere importanti esperienze culturali durante e dopo gli studi. Come già accade in qualche caso degno di nota.
Non solo la libera circolazione dei professionisti e degli studenti mi sta a cuore, ma soprattutto la certezza che le nuove professioni sanitarie possano garantire livelli accettabili di sicurezza per i cittadini. Ma, siccome l’osteopatia ha vissuto negli ultimi trent’anni nel limbo del vuoto normativo, viene spontaneo chiedersi se tutti gli osteopati italiani abbiano livelli simili di competenza ed esperienza per poter essere nello stesso tempo abilitati all’esercizio dell’attività sanitaria. In termini analoghi, è legittimo chiedersi se tutte le scuole che hanno sfornato osteopati abbiano avuto similari requisiti di idoneità.
Per contro, non penso che ridurre la durata del ciclo di studi e prevedere la collocazione in un settore della sanità che comporti il controllo dei medici sul lavoro degli osteopati possa risolvere il problema. Questo perché i medici sanno fare i medici e hanno già pesanti responsabilità per il loro lavoro, mentre gli osteopati, in quanto professionisti autonomi e complementari, dovrebbero avere loro stessi le competenze per capire quando e come possano o non possano assistere i pazienti. Anche questo, in effetti, riferisce la norma CEN.
Quindi, come accennato dal Ministro, se l’esperienza europea rappresenta il punto di riferimento, la soluzione più logica è rappresentata dalla definizione del profilo professionale e pedagogico descritto dalla norma CEN (5 anni di studi – ndr), in relazione alla collocazione sanitaria più adatta. Questo, tanto per i futuri osteopati, quanto per quelli in formazione, quanto per quelli già formati che potranno, nel caso, adeguarsi ai nuovi canoni formativi. Molte professioni in Italia sono infatti tenute all’aggiornamento e alla formazione abilitante.
Non sarebbe oneroso per lo Stato prevedere complementi di formazione, ad esempio mediante il ricorso ai numerosi Provider ECM e alle differenti modalità formative da questi adottate. Sarebbe, invece, particolarmente oneroso per i cittadini non disporre di certezze sulle competenze dei nuovi professionisti della salute, oppure ricorrere ai medici specialisti per farsi indicare trattamenti attuati da operatori con competenze assolutamente parziali rispetto a quanto descritto sempre dalla norma CEN. Neppure l’appartenenza ad un Albo sarebbe sufficiente a tutelare, nel caso in cui gli iscritti non dispongano delle competenze culturali, operative e deontologiche previste universalmente.
A sostegno dell’approvazione del DDL Lorenzin al Senato ebbi già modo il mese scorso di riferirmi alla più alta qualifica degli osteopati come criterio essenziale per la loro integrazione sanitaria. Lo faccio nuovamente alla vigilia della discussione presso la Commissione della Camera, confidando nell’attenzione dei suoi componenti e confermando quanto sostenuto con ineccepibile coerenza dall’Istituto IEMO, dopo aver cooperato alla stesura della norma europea.
Luciano Doniaquio
Osteopata
12 giugno 2016
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