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Infermieri. Se i nostri quadri sono “al soldo” delle aziende

di Luca Sinibaldi

26 AGO - Gentile direttore,
ho apprezzato molto le parole con cui il collega Piero Caramello nell’articolo pubblicato su Qs “Infermieri. Ecco perché non voglio diventare casta”  ha sottolineato il rischio non solo di instaurare la solita crociata autolesionistica ma anche di permanere in quell’avvilente spirale di replicazione dei rapporti di potere, rapporti che tanto abbiamo, come infermieri, sofferto nel confronto con i medici. A più riprese, su riviste e social di gruppi infermieristici, mi sono trovato ad argomentare il problema dell’inefficacie governo della nostra professione. Agli inizi di questo anno in molte province si sono rinnovati i consigli dei collegi ai quali facciamo parte insieme ad altre figure sanitarie. E in quella occasione è stata espressa la volontà di un cambiamento esacerbatosi in alcuni casi nel totale rinnovo delle persone in carica nei precedenti consigli, oltre che ad una probabile pressione sulla storica (allora) presidente nazionale della Federazione IPASVI, Infermiera Annalisa Silvestro, culminata nel suo passo indietro.
 
Ma tutto questo (ed è in realtà veramente poco) oltre a non produrre praticamente nessun cambiamento sostanziale, mentre ogni giorno di più gli infermieri, gli ospedali e varie strutture, i cittadini, soffrono di un crescente degrado del SSN, non è riuscito a scalfire a mio avviso il nocciolo duro del problema. Di quel problema cioè che gli Infermieri italiani portano in seno come una serpe velenosa senza riuscire a prenderne coscienza e disfarsene: i loro quadri sono al soldo del sistema aziendalistico! E questo, si potrebbe contestare, è vero anche per i quadri medici. Ma vi è una sostanziale differenza tra un dirigente medico ed uno infermieristico, una differenza che deriva non solo dallo spessore storico delle due professioni ma anche probabilmente proprio da quel potere di casta che Piero Caramello citava, cioè che il primo ha il potere in seno ad una azienda di spostare pesantemente i budget mentre il secondo  nella stragrande maggioranza dei casi deve accontentarsi delle briciole. Questo avviene ormai da anni e le conseguenze le abbiamo tutti sotto gli occhi.
 
Ad esempio, la disoccupazione infermieristica in negativo, non può certo essere paragonata a quella medica, mentre l’OCSE,  in una sua indagine del lontano 2008, facendo riferimento proprio alle stime  2006 dell’IPASVI, affermava che in Italia la carenza di infermieri consisteva in circa 60000 unità. Sulla scorta di questi dati si gridò alla necessità di inserire addirittura Infermieri stranieri con il paradosso che oggi (strano che IPASVI di questi tempi non abbia emesso stime precise del fenomeno!) gli Infermieri italiani cercano occupazione nel Regno Unito, in Svizzera, Germania…Il problema delle dirigenze infermieristiche (di rimando dei molti coordinatori infermieristici) poi, tocca un tema squisitamente ordinistico che la Federazione IPASVI ha sempre, poco elegantemente, scaricato sulle spalle delle rappresentanze sindacali. Il tema cioè dell’ inadeguato sfruttamento della risorsa infermieristica all’interno delle aziende sanitarie tanto pubbliche che private. Una inadeguatezza evidente secondo il profilo legale e deontologico sancito sia dal  Decreto 14 settembre 1994, n. 739 tutt’ora in vigore ma ampiamente disatteso,  sia dagli ARTT. 47; 48;49;50;51 del Codice Deontologico degli Infermieri, secondo i quali, un coordinatore infermieristico che si trovasse a dover imporre ad un infermiere in modo reiterato mansioni certo ritenibili “straordinarie per un laureato” quali quelle di segreteria per i medici, di riassetto di materiali per l’igiene ambientale e l’igiene personale degli assistiti, l’igiene degli assistiti a causa di politiche di risparmio che mirino a ridurre il numero del personale di supporto sfruttando il personale infermieristico, quel coordinatore, sarebbe costretto per deontologia professionale  a darne comunicazione al proprio dirigente infermieristico aziendale e al proprio collegio di riferimento. 
 
Il Dirigente Infermieristico parimenti, sarebbe obbligato a darne comunicazione al collegio di appartenenza e il collegio provinciale di appartenenza, sorretto dalla Federazione, intimare alla direzione dell’azienda un uso più consono della risorsa infermieristica, fino a profilare un intervento della magistratura. Tutto questo non è mai accaduto. Anzi, posso testimoniare di persona come la catena virtuosa che ho descritto in realtà e in modo rovesciato oggi rappresenti quella catena viziosa in cui i coordinatori infermieristici, per potersi mantenere in tale status, diventano in alcuni casi gli aguzzini degli infermieri, i dirigenti infermieristici per mantenersi nel loro status, avallano le politiche aziendali che demansionano ormai sistematicamente gli infermieri, i collegi provinciali sono delle strutture a dir poco inesistenti e la federazione, più volte chiamata in causa, ha stravolto a proprio piacimento il senso di quegli articoli del codice deontologico, oltre ad aver scaricato l’onere di intervento sulle organizzazioni sindacali le quali, in tale frangente, hanno francamente poco spazio, essendo costrette tra i paletti dei contratti nazionali e decentrati. Come vede Direttore, da una serpe in corpo, di cui avevo accennato, gli infermieri se ne sono ritrovate invece molte. E per chiudere tornando sul concetto di casta…è proprio su questo concetto che si fonda probabilmente lo stravolgimento del criterio delle responsabilità, nei sistemi verticistici quali quelli aziendali.

Luca Sinibaldi
Infermiere di Medicina Generale

26 agosto 2015
© Riproduzione riservata

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