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Se anche l'infermiere è in crisi

di Marcella Gostinelli

29 MAR - Gentile Direttore,
ho letto l’articolo del 18 marzo “se il medico va in crisi…”. Sono una infermiera e mi preoccupo molto della crisi del medico; anche gli infermieri sono in crisi, ma se lo è il medico vuol dire che siamo in un momento cruciale, in cui si può “guarire o morire” e l’una o l’altra condizione dipenderanno dalla capacità che il medico avrà di cogliere o meno la circostanza propizia per risolvere lo stato di morbosità in cui si trova, esattamente come fa con il suo malato quando sta particolarmente male. I medici sono come paralizzati, spiazzati da un contesto che è cambiato e dove il cambiamento non è avvenuto dal basso, non li ha riguardati, dove i professionisti della salute sono considerati non un valore, ma un problema sui problemi. Cambiano le leggi ed i medici con gli infermieri devono adeguarsi; cambiano le organizzazioni e non si interpella chi ci lavora; cambiano le finanze e i professionisti si modulano, mediante input, con la pretesa che si adeguino rapidamente, il tutto subito dai medici e poi dagli infermieri come se si trattasse di una sorta di assimilazione forzata in contesti sempre più impersonali ed antirelazionali. E’ dunque crisi vera.
 
Per il medico il termine crisi non indica, oggi, una crisi di crescita, un evento critico ma vitale, paragonabile ad una crisi puberale, ma una crisi di maturità, la crisi di chi è vissuto di rendita per tanto tempo e si è accorto che non raccoglie più quanto raccoglieva in passato, ma soprattutto che non è più libero; per l’infermiere, invece, una crisi d’identità che sembra una crisi di crescita, ma non lo è; per entrambi è comunque un momento cruciale di un decorso che può andare bene, ma anche male. Ed è proprio questa ambivalenza opportunità /male che può esprimere il termine crisi che dovrebbe interessare entrambe le professioni. Medici ed infermieri dovrebbero stare insieme, essere uniti e non litigare, e non per avere un supplemento d’anima, ma per serietà ed opportunità. La crisi potrebbe, infatti, prefigurare uno stato nuovo, rivoluzionario , che consegue all’ eliminazione di tutto ciò che nuoce ad un equilibrio necessario al sistema per stare in salute. Ciò che nuoce il medico nuoce anche l’infermiere perché entrambi sembrano subire una realtà sanitaria che è molto in ritardo e perciò inadatta a tutelare la salute dei cittadini, che infatti non riescono più a curarsi. E se i cittadini non si curano ,medici ed infermieri hanno fallito e si ammalano. Occorre una nuova coscienza e che nasca dal basso e non da un atto politico alto.

La storia dovrebbe aiutarci: come nel ’43, era fascista con politiche inadeguate, non adatte ad un paese logorato dalla guerra, fu necessaria una nuova coscienza sanitaria, che muovesse dal basso resistendo ad una realtà gravemente ritardataria che aveva portato alla creazione dell’Ente mutualità , anche oggi, a causa di politiche inadeguate, non adatte ad un paese logorato dalle tasse generali e dalle tasse di malattia c’è bisogno di una nuova coscienza che muova dai medici e dagli infermieri e che resista ad una politica che porta alla morte dell’articolo 32 della costituzione e con esso del valore delle professioni di servizio. All’epoca però, a differenza di oggi, il popolo era spossato, ma non domo e resistendo nella clandestinità della lotta poterono far emergere una coscienza nuova dal basso che portò prima la Costituzione e due anni dopo l’articolo 32. Da questa nuova coscienza nacque il concetto di salute pubblica, intesa come salute del popolo, bene da difendere ed estendere attraverso un sistema integro di politica medica che portò al concetto moderno di sanità. E per popolo è da intendersi non solo la società civile, ma anche i medici e le professioni sanitarie, che oggi, però, sbagliano l’oggetto della loro resistenza. Si resistono gli uni gli altri e non si accorgono di non resistere ad una politica sanitaria ritardata, divenendone vittime.

La resa del popolo, il fatto che i cittadini poveri o relativamente poveri abbiano smesso di curarsi,e che i medici non riescano più a curare e con loro gli infermieri dovrebbe aiutare medici ed infermieri a comprendersi in una crisi che è prevalentemente e prioritariamente una crisi di coscienza tacitata dal sistema politico sanitario incompetente. Il punto nodale, a mio modesto e umilissimo parere, è proprio questo silenzio di coscienza, imposto da una politica indesiderata,ma vociante, sebbene solitaria, non improntata a verità, fermezza, lucidità, rigore che si limita e limita a riforme parziali, delimitate e circoscritte e che perciò volutamente non riformano.

Con queste convinzioni ho letto la proposta di legge sulla “(..)definizione di atto medico” presentata da alcuni politici del PD e l’ho interpretata: sembra una proposta scritta da chi non ha una coscienza politica, da chi non è medico anche se lo è. L’ho percepita come una specie di paccottiglia distribuita rapidamente, e come senza pensarci, che non ha richiesto sforzi, ma che mentre veniva scritta permetteva di rassicurare chi la scriveva per ottenere consensi, come fosse un dono per se stessi e per “alcuni altri” e non per tutti. Un dono di sollecitazione. Se l’interpretazione fatta fosse giusta e il “dono di sollecitazione” fosse accettato da “alcuni altri” (politici e medici, nello specifico) non si aprirebbe mai “il campo di conversazioni” propriamente dette, auspicate da tutti ed anche dal Ministero e tutti ci impoveriremmo. Se invece l’interpretazione fatta fosse giusta e il dono di sollecitazione fosse considerato non un bene circolante, ma solo delle parole la cui produzione costa nulla, l’averle emesse impoverirebbe solo il donatore, ma non i donatari ( medici ed infermieri) e neanche gli uditori (i cittadini), ai quali la parola dell’altro costa sempre di più. Quella proposta sembra avversa al “servizio” sanitario, al movimento culturale necessario al sistema, al valore ed al significato medico sanitario originario, è una proposta incapace di tirare fuori il medico dalle mani di una politica inadeguata e quindi dalla sua malattia. Questa è una crisi che porta a compromettersi, o si è liberi o si è schiavi.

Gli infermieri ,in tutto ciò, potrebbero aiutare i medici a capire che la logica dell’Atto medico, che stanno seguendo, è la stessa che loro usarono per definire il profilo professionale, oggi superato perché risponde ad una logica ottimizzante in regime di razionalità oggettiva e quindi decontestualizzata. Perciò non guariranno con l’Atto medico ben definito. Alla nuova presidente della comunità infermieristica, Barbara Mangiacavalli e alla nuova presidente della comunità medica, Roberta Chersevani - alle quali dono il mio benvenuto e l’augurio di un lavoro buono perchè comprensivo del momento storico e di coloro che rappresentano - vorrei perciò chiedere di impegnarsi prioritariamente nel superare il baratro dello scetticismo fra le professioni, per incoraggiare la politica ad adottare un modo nuovo di intendere il lavoro e di come ad esso approcciarsi.

Il punto di partenza per il cambiamento potrebbe essere quello di iniziare a studiare ed a considerare il nostro lavoro come “attività situata”, con lo scopo di indebolire, fino a sostituire, nei luoghi di lavoro, la razionalità oggettiva, rappresentata sotto forma di un insieme di compiti da eseguire in regime di “logica ottimizzante”, a favore della logica della situazione, e quindi in regime di razionalità contestuale. Con questo indebolimento dei modelli razionali, il contesto nel quale i medici e gli infermieri lavorano non sarebbe “dato,” ma da loro stessi “costruito” ed il lavoro non sarebbe un insieme di compiti strutturati oggettivamente, dell’uno o dell’altro professionista, ma sarebbe “situato”, cioè contestualizzato entro situazioni e fenomeni.

In tali contesti “agire” significherebbe operare insieme, senza dualità, con conoscenze di volta in volta selezionate, pertinenti ai processi di definizione delle situazioni di cura. Chiederei in sostanza di orientarci verso un paradigma che consideri il lavoro, la pratica lavorativa come una modalità di azione e conoscenza emergenti in situ dalla dinamica delle interazioni ( Gherardi, 2005). Per fare questo bisogna formare insieme, medici ed infermieri, sulla comunicazione e sulla capacità di entrambi di comprendere ed essere orientati all’azione altrui. Bisogna imparare, prima di andare in “cabina di regia”, ad essere fedeli alla nostra originarietà, ai fenomeni e riscoprire una intenzione di cura libera da pregiudizi o retaggi culturali e incrostazioni intellettuali. Il medico guarisce e con lui gli altri se ritrova una coscienza nuova, non dico giacobina, ma nemmeno cosi silenziosa.

Marcella Gostinelli
Infermiera 

29 marzo 2015
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