Caso Marlia. Una ‘querelle’ che può paralizzare l’attività sanitaria in radiologia
di Luca Benci
28 MAG -
Gentile direttore,
mi trovo mio malgrado costretto a intervenire per la seconda volta sul
caso Marlia. Sottolineo la mia assoluta indipendenza culturale e professionale che non ha alcun interesse a sposare una o l’altra tesi. La vicenda è nota ai lettori di Quotidiano sanità. Due tecnici sanitari di radiologia medica e due medici sono stati rinviati a giudizio per esercizio abusivo della professione medica (i medici in concorso) per avere effettuato (i tecnici) radiografie prescritte in assenza del medico specialista.
La vicenda attiene quindi a una questione di pura legittimità e non di responsabilità professionale. Non è quindi una vicenda classificabile all’interno della c.d. malasanità e non vi sono parti lese. In discussione è la liceità dell’agire professionale e dell’autonomia del tecnico di radiologia. Il tutto originato da un esposto di una sigla sindacale medica e non di un paziente quindi.
Quotidiano sanità ha pubblicato un
mio intervento il 20 maggio e il 24 maggio è stata pubblicata una
lettera di Licia Gianfaldone, avvocato penalista, la quale polemizza con il sottoscritto partendo da alcuni presupposti, di fatto, errati.
Tento di spiegarmi. Scrive Gianfaldone: “Marlia è un presidio ospedaliero distante 10 chilometri da Lucca. Nella struttura di Marlia non erano presenti medici radiologi né erano previsti nell’organico della radiologia. I pazienti, in virtù di una procedura di gestione organizzativa interna, ricevevano le prestazioni diagnostiche da parte dei soli tecnici sanitari per poi gli esami essere refertati dal medico radiologo a Lucca senza che questi – addirittura - vedesse il paziente, come se il rapporto medico-paziente potesse essere virtuale e la medicina si componga di rigidi protocolli e di meri aspetti tecnici”. Poi conclude, in fondo al suo intervento, domandandosi se “ha ancora senso mantenere in vita quei presidi che non rispettano i livelli minimi di accreditamento”.
Come è facilmente riscontrabile dal sito web dell’azienda sanitaria di Lucca Marlia non è un ospedale ma una “casa della salute”. Oggi con questa espressione si intende un poliambulatorio dove insistono più attività. Sono strutture che nascono sul territorio e si sviluppano maggiormente – in Toscana erano preesistenti - in relazione al c.d. decreto Balduzzi sulla riforma della sanità territoriale. La questione è nota: con il D.L 13 settembre 2012, n. 158 “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del paese mediante un più alto livello di tutela della salute” e relativa legge di conversione si è voluto dare un assetto alla medicina di base più ampia e completa dell’attuale. Si trasforma l’esercizio professionale singolo del medico favorendo l’aggregazione di più medici di medicina generale tra di loro costituendo le unità complesse di cure primarie – che alcune regioni chiamano case della salute – e “privilegiando la costituzione di reti di poliambulatori territoriali dotati si strumentazione di base , aperti al pubblico per tutto l'arco della giornata, nonché nei giorni prefestivi e festivi con idonea turnazione, che operano in coordinamento e in collegamento telematico con le strutture ospedaliere”. Esattamente l’organizzazione della casa della salute di Marlia, dotata di strumentazione di base e che si avvale – è sempre la legge a dirlo – del contributo della professionalità “degli infermieri, delle professionalità ostetrica, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e del sociale a rilevanza sanitaria”. In futuro aperte ventiquattro ore al giorno per sette giorni alla settimana.
Nel caso che ci interessa, quindi, una radiologia in collegamento telematico con le strutture ospedaliere.
Non sono quindi strutture obsolete ma sono strutture nuove previste dalle nuove leggi sulla riorganizzazione della sanità territoriale che nascono e si sviluppano anche per evitare accessi inappropriati alle strutture ospedaliere.
Il tutto sfruttando le normative sull’esercizio professionale delle professioni sanitarie e i loro livelli di autonomia e professionalità e non per ripercorrere l’organizzazione della struttura ospedaliera.
Scrive l’avvocato Gianfaldone che ridurre il tutto alla “presunta autonomia” del tecnico di radiologia è un “falso problema”. Non si capisce perché usi tale espressione. L’autonomia del tecnico di radiologia, al pari della altre professioni sanitarie, nasce dal riconoscimento della legge 10 agosto 2001, n. 251 laddove all’articolo 3 riconosce alle professioni tecnico-sanitarie proprio l’autonomia professionale. Non è presunta dunque l’autonomia ma è riconosciuta dal diritto positivo vigente con una norma, tra l’altro, successiva a quella della radioprotezione e che si riallaccia alle normative di esercizio professionale del 1999 formandone un unicum complessivo.
Ricordiamo che stiamo parlando di un procedimento penale per esercizio abusivo della professione medica laddove – questo sembra di capire – l’avvocato Gianfaldone auspica una condanna a dei tecnici solo per avere, dietro prescrizione medica, eseguito radiografie.
Ricordiamo allora di quale norma stiamo parlando. L’articolo 348 del codice penale recita testualmente:
“Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 516”.
L’articolo 348 c.p. è una “norma penale in bianco” che presuppone e rimanda ad altre disposizioni che determinano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito, ed è quindi abusivo, l'esercizio dell'attività protetta.
E’ una norma che tutela l’interesse pubblico, il diritto alla salute nel caso specifico. Nasce per combattere l’abusivismo professionale. Esempi tipici: il non abilitato che si improvvisa dentista, fisioterapista, medico, infermiere ecc.
Qui vi è da decidere se sanzionare in sede penale un tecnico sanitario di radiologia medica che svolge, dietro prescrizione medica, all’interno di una struttura pubblica e della sua relativa organizzazione, esami radiografici. C’è da decidere se le norme integratrici del precetto penale siano insufficienti per permettergli questa attività. Le riassumiamo: il tecnico di radiologia è l’operatore “sanitario abilitato a svolgere in via autonoma… tutti gli interventi che richiedono l’uso di sorgenti di radiazioni ionizzanti, sia artificiali che naturali”; ha un “campo proprio di attività e di responsabilità”, “agisce con autonomia professionale” e potremo continuare sottolineando il fatto che si forma all’interno della facoltà di medicina e chirurgia con apposita laurea.
Dovrebbe occuparsi – un laureato alla facoltà di medicina – di meri “aspetti pratici” delegati dallo specialista? Un ordinamento giuridico che prevede una laurea per un lavoro così limitato da un punto di vista professionale? Si può prevedere – domanda retorica – una delega per un’attività che è già “propria”?
E’ quindi esercizio abusivo? I massimari di giurisprudenza – sia di legittimità che di merito - non ne riportano traccia. Mai sollevato questo problema in quanto dalla sistematica lettura delle varie norme di abilitazione di esercizio professionale non si può che arrivare alla conclusione della liceità.
Un’ultima considerazione sulla presunta superiorità della norma di recepimento della direttiva europea. Vera in generale sulle questioni che sono di competenza del diritto comunitario, non su quelle che ne sono sottratte. Il diritto comunitario si occupa di libera circolazione e, in sanità su questi aspetti, di titoli professionali e della loro omogeneizzazione. Le norme di esercizio professionale sono determinate dai diritti dei singoli stati membri e, per il diritto italiano, dall’articolo 117 della Costituzione.
Tutta questa querelle diventa curiosa e può portare effetti paralizzanti dell’attività sanitaria in radiologia non a tutela certo del diritto alla salute ma di una parte di una categoria professionale che strumentalmente il diritto per motivi di difesa corporativa. Il diritto come strumento di lotta sindacale, quindi.
Luca Benci
Giurista, Firenze
28 maggio 2013
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore