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Occorre rilanciare la lotta agli sprechi in sanità

di Vittorio Mapelli

05 NOV -

Gentile direttore,
vorrei proporre un metodo “scientifico” per valutare l’adeguatezza del fondo sanitario, previsto dal disegno di legge di bilancio (LB) 2025, che ci faccia uscire dalla contrapposizione “è un record-no, sono tagli”, ma prima mi consenta una digressione. Mi occupo di spesa sanitaria dal 1975, quando l’ISTAT non aveva ancora elaborato i “I conti della protezione sociale”(1981) e per conoscerne l’ammontare occorreva sommare le spese dei bilanci di una decina di Enti mutualistici, dei comuni, delle province e delle neonate regioni. I confronti internazionali poi erano rarissimi (il primo fu di Brian Abel-Smith nel 1967) e da giovane collaborai con Jean-Pierre Poullier dell’OCSE per costruire il primo database per l’Italia. Nel 2009-11 ho dato un contributo all’OCSE per il nuovo System of Health Accounts (SHA). Oggi fortunatamente i dati dell’ISTAT, dell’OCSE, di Eurostat sono accessibili a tutti online e gratuiti e non c’è politico, medico, sindacalista, giornalista che nei talk show non snoccioli cifre e percentuali sulla spesa sanitaria rispetto al Pil e non faccia paragoni con Francia, Germania, Stati Uniti. O che non polemizzi sul taglio di 37 miliardi alla sanità nell’ultimo decennio – una famigerata e falsa notizia della Fondazione GIMBE, che seppure smontata, continua a circolare. Ormai, anche sui social media la gente comune interviene a commentare la spesa sanitaria. Un po’ come per la nazionale di calcio.

Pochi sanno in realtà che esistono sette fonti e sette cifre discordanti – nel totale e nelle singole voci – della spesa sanitaria pubblica: tre dell’ISTAT, coerenti con i principi di contabilità nazionale (CN), inviati e pubblicati anche dall’OCSE e dall’Eurostat, e altri quattro file di contabilità aziendale del Ministero della salute, del MEF, della Corte dei conti e di Open data (scaricabili), che sono la somma dei bilanci delle aziende e degli enti sanitari (modelli CE). Servono a calcolare il deficit e a valutare i piani di rientro delle regioni; in genere sono superiori ai primi anche di 2-3 miliardi. Nel Piano strutturale di bilancio (PSB, l’ex DEF) il Ministro dell’economia usa i dati di CN, ma poi al tavolo di monitoraggio guarda i dati delle aziende sanitarie. Vale a dire, quella differenza nelle fonti statistiche sono i deficit regionali. E dunque, quale aggregato di spesa utilizzare? L’analisi della spesa sanitaria è pur sempre una materia specialistica, se si vuole approfondirne in modo serio la dinamica, reale e monetaria, le cause di crescita, fare previsioni e confronti con altri paesi. Ogni disciplina ha il suo metodo. Se con i dati si fanno diagnosi approssimative o sbagliate dei mali della sanità (come a volte sento in tv), anche la terapia sarà sbagliata o inefficace.

In occasione della legge di bilancio si creano poi due tifoserie: quella dei filo-governativi, che annuncia fiera di aver stanziato la cifra record di tutta la storia, e quella dei filo-oppositori che l’accusa di falsità, perché l’incidenza sul Pil continua a calare. Con uno folgorante esempio l’on. Bersani la paragona alle scarpe, che se vanno bene della taglia 25 ad un bambino di 6 anni, non potranno andar bene della taglia 27 ad un ragazzo di 18 anni. Esempio però inadatto, perché continuando nella metafora, un uomo di 50 anni dovrebbe calzare la taglia 60. Fuori di metafora, la crescita della spesa rispetto al Pil non è infinita, a meno di non voler raggiungere il livello degli USA, già al 17% del Pil e prossimi a toccare il 20% nel 2032, secondo Health Affairs. Che la spesa cresca in percentuale sul Pil significa che la sua elasticità è >1. Se in un anno aumenta del 5% (nominale) e il Pil del 2,5% (nominale), la sua elasticità è di 2 (0,005/0,0025), vale a dire la sanità è cresciuta del doppio e ha “drenato” risorse da altri consumi pubblici (es. istruzione). Ha ragione però nella sostanza, perché la spesa sanitaria pubblica è destinata a crescere, secondo nostri calcoli, almeno fino al 9,1% del Pil nel 2050, per poi calare.

Come valutare, dunque, serenamente, se l’aumento messo a bilancio è congruo o sottostimato? Ritengo innanzitutto siano da scartare, come misure – pur corrette, ma imprecise – sia l’aumento in valori assoluti (il record), perché non tiene conto né delle variabili demografiche sottostanti, né dell’inflazione dei beni e servizi sanitari, che sottrae potere d’acquisto, sia l’incidenza percentuale sul Pil, perché è una misura relativa, legata all’andamento del Pil, che sta al denominatore. I 120 miliardi stanziati a più riprese per la pandemia nel 2020, pari al 7,2% di un Pil fortemente sceso, sarebbero sembrati insufficienti (6,2%) sul Pil dell’anno dopo. Adesso che a settembre l’ISTAT ha rivalutato il Pil di 43 miliardi il confronto diventa ancor più ballerino.

Esiste, a mio parre, una misura un po’ complessa da calcolare, ma più precisa, esprimibile come il “Finanziamento equivalente deflazionato (Fed)”, che informa se l’aumento previsto nella LB consentirà ad ogni cittadino di acquistare, nel nuovo anno (t1), almeno la stessa quantità di beni e servizi sanitari dell’anno precedente (t0). È un valore di “salvaguardia” del livello raggiunto. Non basta, infatti, deflazionare la cifra a bilancio (ottenendo il valore “reale”), ma occorre considerare che la popolazione invecchia – anche se decresce – e costa di più per le cure, per cui un elementare principio di equità sancisce che ognuno debba avere la “giusta” quota di risorse (l’abusata “fetta di spesa”). I parametri di calcolo sono desumibili (i) dall’ISTAT per la popolazione residente al t0 e prevista al t1-2-3…, (ii) dai “pesi” analitici per fasce d’età, utilizzati dalla Conferenza Stato-regioni, per rendere “equivalente” la popolazione (compattati in due soli: peso 1 per le fasce 0-64 anni e peso 2,98 per le fasce 65 e oltre) e (iv) dal deflatore del Pil contenuto nel documento di PSB. Si confronta quindi lo stanziamento previsto dalla LB, diviso per il prodotto degli indici delle tre variazioni indicate (0,9995x1,005x1,021), ottenendo il Fed al t1, con il finanziamento al t0 e si valuta il risultato. La tav. 1 illustra i risultati dell’elaborazione per i primi tre anni (v. riga 9), essendo i successivi stanziamenti ancora provvisori.

Come si può notare al punto 3 di tav. 1, nel 2025 e soprattutto nel 2027 il valore di spesa dell’anno precedente non è salvaguardato.

Ma il livello di salvaguardia potrebbe non essere sufficiente. Sono sei, infatti, le variabili che fanno variare la spesa sanitaria – e quindi anche il finanziamento necessario –, tre reali: (i) la dinamica della popolazione (aumento/diminuzione), (ii) il suo invecchiamento e (iii) la maggiore quantità di prestazioni domandate (oltre le due precedenti); e tre monetarie: (iv) l’andamento generale dei prezzi dell’economia (deflatore del Pil), (v) l’inflazione specifica dei beni e servizi sanitari (inclusi i costi dei rinnovi contrattuali del personale SSN) e (vi) quello del mix dei beni e servizi sanitari, tendente a spostarsi verso beni di qualità superiore e, quindi, a prezzo o costo medio più alto. Si può perciò effettuare una nuova valutazione di congruità della LB, comprensiva di tutte le variabili, di cui le tre mancanti sono quelle osservate nel medio-lungo periodo. Elaborando i valori di produzione della branca “Assistenza sanitaria” degli anni 2000-2019 dell’ISTAT (in particolare dal 2012 al 2019, il periodo delle “vacche magre”, rispetto al precedente di “vacche grasse”) si può infatti ricavare che (v) l’inflazione da prezzi e costi sanitari è circa uguale a 0, mentre (vi) l’eccesso di prezzi sanitari, dovuto al mix, è pari a +0,5% annuo, e la (iii) maggiore quantità di prestazioni anch’essa uguale a +0,5% annuo. Applicando tutti i sei parametri di variazione, risulta che il finanziamento “tendenziale” 2025 ammonta a 138.763 milioni (+4.750) e che mancano ancora 1.420 milioni, rispetto ai 3.330 già aggiunti (tav. 1, punto 4). Il tutto per una crescita “fisiologica” della spesa, escludendo i fabbisogni di personale per le Case e gli ospedali di comunità. Stessa situazione per gli anni successivi. L’elasticità del finanziamento rispetto al Pil risulterebbe sempre superiore a 1, seppure di poco: 1,1 nel 2025 e 2026 e 1,2 nel 2027 – come quasi sempre è avvenuto negli ultimi quarant’anni. Per le sue caratteristiche specifiche e guardando retrospettivamente al lungo periodo, oserei affermare che la spesa sanitaria è “intrinsecamente” elastica rispetto al Pil.

Si pone, a questo punto, un problema di sostenibilità della spesa e di scelte politiche. Se il governo non aggiungerà risorse in questo e nei prossimi anni, vi saranno conseguenze per i cittadini, che troveranno più difficile accedere ai servizi sanitari, e per le regioni che dovranno attingere ai propri bilanci o vedere aggravata la situazione, se già sotto piano di rientro. Se lo farà, dovrà indicare le coperture, sapendo che ha già acceso 6,3 miliardi di debiti per il Fondo 2025 con le LB del 2022, 2023 e 2024. Rivendicare più fondi è sempre la strada più facile, per tutti. L’alternativa – o il complemento – potrebbe (dovrebbe) essere il taglio degli sprechi e delle inefficienze, su cui si favoleggiano miliardi di risparmi, ma il tema sembra uscito di moda dopo la pandemia. Forse sarebbe il caso di rilanciarlo.

Vittorio Mapelli
ex-professore associato di economia sanitaria, Università degli studi di Milano



05 novembre 2024
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