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Aggressioni al personale e salute mentale, qualcosa non sta funzionando

di Andrea Angelozzi

04 NOV -

Gentile Direttore,
devo confessare di essere sempre molto colpito dal copione ripetitivo che seguono reazioni e dichiarazioni in occasione di aggressioni al personale sanitario, diventato una sorta di ritualità universalmente applicabile ad ogni vicenda, dove l’evento specifico si diluisce e scompare, senza che emerga la sua effettiva singola natura. E’ come se si innescassero delle procedure dichiarative di default, che confluiscono, al di là delle più sincere intenzioni, in dichiarazioni standard che rendono uguali tutte le aggressioni, uguali le reazioni ed uguali i (pochi) provvedimenti da prendere. Un pensiero che sembra voler rassicurare che si è presenti alla situazione ed in qualche maniera la si gestisce, senza però entrare veramente nei problemi. Ricorda un po’ come quando di fronte ad eruzioni, terremoti e alluvioni le autorità comunicano che la situazione è sotto controllo, come se questo bastasse davvero a gestire vulcani, placche tettoniche e uragani.

Queste riflessioni sono innescate dall’ennesimo episodio di cronaca, in Veneto. Qualche giorno or sono una persona con patologia psichiatrica, armata di coltello, dopo avere seminato il panico in città e presso il Centro di Salute Mentale, è stato bloccato dalle Forze dell'Ordine in un Pronto Soccorso, a conclusione di collutazione, taser e Carabinieri feriti.

Le dichiarazioni che leggiamo sulla stampa sono tutte centrate sulla solidarietà al personale sanitario, il ringraziamento ai Carabinieri, l’indignazione per la mancata riconoscenza di taluni cittadini verso chi li cura e la richiesta di un ulteriore inasprimento delle pene, non senza proposte che reclamano cambiamenti culturali al pari di strumenti di controllo su chi entra nelle strutture sanitarie.

Sia chiaro: le dichiarazioni (un po’ meno le proposte, forse ..) sono ineccepibili ed è importante che vengano espresse. Il problema non è quello che viene detto, ma quelle che invece non viene detto.

La percezione della ritualità nasce infatti dalla sensazione di assistere a formule che si adattano senza sforzo a tutte le occasioni, una sorta di unguento universale che uniforma condizioni che comunque una loro specificità invece la hanno, rinunciando pertanto a volere esaminare i problemi diversi che le diverse situazioni pongono. Anche se la inaccettabile violenza è la stessa, le situazioni infatti non sono le stesse. Giusto per dirne qualcuna, c’è la violenza da esasperazione in chi aspetta da ore al Pronto Soccorso, intasato da problemi clinici che dovrebbe essere gestiti altrove e sguarnito di personale; c’è la violenza di chi ritiene che il medico sia un puro intermediario di ciò che crede di avere capito su internet o di chi è stato illuso che tutto si possa curare e nessuno più muoia, nemmeno a 100 anni; c’è la violenza di chi è semplicemente prepotente e si sente giustificato in questo da una cultura che premia il sopruso e la spregiudicatezza, talvolta trasformate in virtù da una società che educa alla competitività ed alla sopraffazione; c’è anche chi sta male perché ha una patologia psichiatrica.

La ritualità rassicura apparentemente le vittime senza dirci nulla sull’aggressore, ed è proprio questo che illude, che crea apparenza, perché, rinunciando a volere capire cosa è successo, non si è in grado di fare nulla, di prevenire nulla e alla fine, a fatto compiuto, lascia tutti, aggressori ed aggrediti con le loro ferite. Tenendo conto che a volte i ruoli si mescolano e capita anche che il malato che aggredisce, come a Verona alcune settimane or sono, poi finisca ucciso, vittima della reazione di difesa degli altri.

E mentre facciamo celebrazioni e francobolli per Basaglia, stiamo assistendo ad una trasformazione di vicende psichiatriche in situazioni più adatte ai saloon dei villaggi del Far West, compresa la raccomandazione a non sparare sul pianista.

La letteratura scientifica è chiara: la patologia psichiatria offre una modesta correlazione con la violenza, inferiore a tanti altri fattori causali, ma una modesta correlazione per talune condizioni cliniche c’è e numerose prove confermano che è quanto più gestibile quanto più si è messi in grado di seguire i pazienti con una attenzione supportata dall’avere risorse e personale. E prescindendo dal caso specifico di cui non sappiamo nulla e diamo in ogni caso per scontato che, se in cura, sia stato aiutato con tutto quello che era possibile fare, in termini più generali, perché non compare pubblicamente alcuna riflessione sulla maggiore utilità in questi casi di un maggiore investimento nei servizi, a prevenzione delle situazioni, rispetto al proclamato maggiore carico nelle sanzioni quando poi il peggio è avvenuto?

Alla fine nessuno si sofferma sul fatto che questi episodi in cui sono coinvolti pazienti psichiatrici sono sempre più frequenti e questo ci sta dicendo che vi è qualcosa nelle risorse e nella organizzazione attuale della nostra psichiatria che non sta funzionando.

Anche talune dichiarazioni per cui cui un qualche equilibrio si è rotto, e che dopo il Covid vi è un malessere crescente, dice molto poco, e soprattutto tace sul fatto che non si vede come i servizi possano dare risposta ad una domanda crescente e che nulla si fa al riguardo. Basta vedere i dati SISM su quante persone nelle varie regioni assumono antidepressivi o antipsicotici, per rendersi conto che i servizi da sempre seguono solo una modesta parte di un malessere generale importante. E’ un problema che esiste da decenni ma su cui non ci si sofferma, in una situazione che è destinata a peggiorare visto il crescente impoverimento delle risorse per i servizi di salute mentale in Italia, ed il crescente malessere che saranno sempre meno in grado di gestire.

Ma anche di questo squilibrio nelle dichiarazioni non c’è traccia. Si parla solo di inasprire le pene, come se questo fosse un deterrente nel caso di azioni che nascono da questi tipi di problemi; e di derive culturali che dovrebbero essere risolte facendo qualche corso nelle scuole; o di mettere metal detector, come se si fosse in aeroporto.

Ma alla fine, pensandoci bene, forse è un bene che non se ne parli. La soluzione proposta temo ormai non sarebbe quella di investire nella salute mentale dei cittadini, ma di riaprire i manicomi.

Andrea Angelozzi

Psichiatra



04 novembre 2024
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