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Sulla responsabilità professionale si intraprendano iniziative coraggiose ma necessarie

di Carlo Scorretti

05 APR -

Un approccio diverso, direi necessario, per ragionare in merito dell’annoso problema della responsabilità professionale medica, forse dovrebbe basarsi su di un disincantato bagno di realtà. E’ quello che in realtà ci ha proposto il prof Cavicchi aprendo su tale questione su questo giornale di fatto una discussione (QS 1 marzo2024) che a giudicare dai diversi interventi che ho letto sino ad ora. mi è parsa molto proficua.

Se e vero, come giustamente afferma Pizza (vedi su QS del 27 marzo), che l’identità del medico è definita dal mondo in cui egli opera e che quindi non può mai essere definitiva, è necessario prenderne atto e to take arms against a sea of toubles and by opposing end them (W. Shakespeare, Hamlet).

Non è quindi un caso se nel lavoro importante dell’ordine di Trento sulla riforma della deontologia del 2018 (Titolo terzo Identità del medico, pag 220) si definisce l’identità del medico “l’identità storica relativa”.


E’ proprio perché l’identità del medico è relativa alla società in cui opera che oggi, come propone con insistenza il prof Cavicchi, questa va ripensata. La cosa che ancora limita la legge 24 è che manca questa ridefinizione. Cioè la responsabilità del medico è definita senza ridefinirne la figura. Questa è innegabilmente una aporia importante.

E poichè questo è un mondo nel quale la tecnica tende a modificare la realtà in cui viviamo con una accelerazione costante, non ci si può più cullare nell’illusione che basti qualche piccolo aggiustamento, con il volto rivolto al passato, come nell’immagine dell’Angelus Novus descritta da Benjamin, tentando qualche ritocco deontologico ad una facciata ormai corrosa dal tempo.

Il tema (il problema) della responsabilità professionale medica, che il prof Cavicchi con grande tempestività ha riproposto con un istant book praticamente tarato sulla commissione D’Ippolito (Medici vs cittadini Un conflitto da risolvere Castelvecchi 2024) non può essere affrontato che a partire da una nuova definizione della professione medica, che salvaguardi il contratto sociale basato sull’incontro (Lèvinas) con l’”altro”, affetto da una condizione di sofferenza (illness) di cui va individuata, diagnosticata, la causa (disease), come elemento basilare della medicina.

Incontro, rapporto medico-paziente che in medicina non è mai con qualcuno che riveste un semplice ruolo di “assistito”, ma con una persona come noi, con un “altro” con il quale il rapporto è passato da un antico e rassicurante paternalismo all’obbligo stringente di rispettare i diritti e le libertà altrui, ovvero nel prendersi cura soprattutto della libertà della persona sofferente, del suo consenso libero ed informato.

In tale prospettiva escono di scena i pronto soccorso nei quali il primo impatto è con le guardie giurate o il rapporto ormai evanescente dei cittadini con la medicina di base.

Ma non è solo il rapporto che è cambiato, la medicina stessa è cambiata, irreversibilmente. Essa come ci spiega Cavicchi è diventata anche, ma non solo con l’ingresso dei diritti, una “scienza impareggiabile”, quindi una scienza tutt’altro che riducibile a fatti naturali come è ancora adesso. Oggi la medicina è una scienza post positivista ad alta complessità che fa dire a Cavicchi che la medicina è una scienza della “quasi natura” perché la sua complessità va oltre la natura quindi ben oltre C. Bernard e la sua medicina sperimentale.

Già adesso viene guidata da tre componenti chiave: 1) raccolta di dati attraverso dispositivi diagnostici e comportamentali che ci descrivono in vari stati di salute e malattia; 2) soluzioni personalizzate attraverso motori analitici avanzati e terapie personalizzate; e soprattutto 3) modelli di business necessari per sostenere il valore delle nuove ricerche e incentivare la crescita continua attraverso una continua, necessaria, ed esponenziale raccolta di mezzi finanziari (esemplare in tal senso il rapporto tra investimenti e vaccini durante la pandemia) E così emersa in ambito sanitario una realtà medica emprendedora, che spremendo chi ha bisogni di salute - in fondo si sa che la salute non ha prezzo - reinveste tuttavia con crescente profitto nelle realtà industriali della salute più avanzate e in genere nella grande finanza internazionale. Questa tendenza ha già da tempo prodotto il conseguente processo di aziendalizzazione anche in Italia e nelle realtà degli Stati Europei dove per molti decenni, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, si era cercato di sviluppare invece una sanità pubblica intesa più come bene comune piuttosto che un bene personalizzato (vedi i cambiamenti avvenuti soprattutto nei sistemi sanitari in UK e in Italia) con l’imposizione del vincolo economico di pareggio del bilancio.

I medici ormai, come qualunque operatore coinvolto principalmente nella gestione d’impresa, sono portati così inevitabilmente a non percepire più come prioritari ed assoluti i presupposti etici e deontologici dell’antichissima professione centrata sul rapporto tra medico e paziente (già Edmund Pellegrino molti anni fa parlava della “commodification”, ovvero della mercificazione della professione medica che negli Stati Uniti si è sviluppata con largo anticipo rispetto ad altri paesi) quanto ad essere piuttosto allineati all’immediata e più contingente responsabilità di gestione finanziaria del vincolo economico del “budget”, di un capitale pubblico o privato, di un bene che va anche protetto in vari modi, alcuni anche determinanti per lo sviluppo di una medicina qual’è quella attuale basata sull’evidenza e sulle linee guida, una medicina che non consente agli operatori, oltre a obbligare all’impiego di procedure verificate, soprattutto di non sprecare risorse economiche, attraverso un eccesso di procedure diagnostiche (la medicina difensiva) o da costi che derivano dalla mancanza di attenzione alla “patient safety”.

E tutto ciò non può che essere affrontato mediante delle sinergie (alleanze) con la società composta dalle persone che hanno dei bisogni di salute ed anche con i soggetti in grado di gestire gli investimenti economici necessari per affrontare in modo efficace tale emergenza.

A ben vedere ciò è in sintonia anche con le intenzioni espresse dal Ministro Nordio nel presentare l’iniziativa di riforma della Commissione d’Ippolito, laddove ha tenuto a sottolineare che il suo dicastero assicura “estrema attenzione” verso la professione medica che per “la sua rilevanza sulla salute dei cittadini e sulle finanze pubbliche”.

In una interessante nota comparsa il 3 marzo di quest’anno su Quotidiano Sanità Maurizio Hazan, Presidente della Fondazione Italia in Salute, pur commentando favorevolmente la recente emanazione del Decreto n. 232/2024 1° marzo 2024, attuativo dell’art. 10, comma 6, della Legge n. 24/2017 (la “Legge Gelli-Bianco”) che disciplina il contenuto e i requisiti delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e gli esercenti la professione sanitaria, sottolineava come il Decreto preveda anche l’adozione di modelli organizzativi tali da garantire la miglior sicurezza delle cure (e del paziente) e fondati su un’efficiente gestione e prevenzione del rischio.

Proprio in merito a quest’aspetto la Fondazione Italia in Salute, di cui Hazan è Presidente, aveva già presentato i risultati di una accurata indagine per esaminare gli effetti della legge italiana sulla sicurezza dei pazienti e sulla responsabilità degli operatori sanitari a cinque anni dalla approvazione della legge 24/2017, norma che non appare essere stata pienamente attuata, in particolar modo per quanto concerne la sicurezza dei pazienti.

La legge prevedeva infatti l'istituzione di centri per la gestione del rischio sanitario in tutte le regioni italiane e la nomina di un Clinical Risk Manager (CRM) in tutte le strutture sanitarie italiane. L'indagine ha evidenziato un debole ruolo dei CRM nella maggior parte delle strutture sanitarie, per la mancanza adeguata di finanziamenti e di personale permanente in tutti i Centri regionali, con una media di due dipendenti per Centro, con conseguente poche riunioni con i decisori del Sistema Sanitario Regionale (meno di quattro incontri all'anno).

La legge 24/2017 secondo tale indagine non appare completa come avrebbe dovuto essere, non includendo sanzioni, criteri standardizzati per la valutazione della qualità e dell'efficacia degli interventi di sicurezza, né gli statuti per la sua applicazione nel campo dell'assicurazione medica.

I limiti della gestione del rischio clinico in una realtà sanitaria complessa e suddivisa in tante realtà regionali tra loro fortemente differenziate era in realtà già emerso da tempo.

Infatti anche nel nostro Paese si è giunti da tempo ormai ad ammettere esplicitamente che «...per molti anni si è tentato di trasferire in sanità le procedure di sicurezza progettate per gli altri settori, ma al contrario di essi, caratterizzati da una impronta prevalentemente ‘‘meccanicistica’’, in quello sanitario prevale il ‘‘fattore umano’’, nel contempo risorsa e criticità. Infatti, se da una parte l’adattabilità dei comportamenti, la dinamicità e la complessità delle relazioni interpersonali sono prerogative fondamentali delle risorse umane all’interno del sistema, esse costituiscono, nello stesso tempo, un fattore critico, perché le dinamiche di lavoro sono complesse, la ‘‘performance’’ individuale variabile e, soprattutto, i risultati dei processi non sempre sono prevedibili e riproducibili...».

L’attuale inserimento nella nostra legislazione di un un importante tassello mancante alla piena attuazione della legge 24, per quanto concerne l’obbligo di coprire i rischi correlati all’esercizio delle professioni e delle attività sanitarie, apre anche il campo ad una revisione del funzionamento tuttora carente dei CRM, soprattutto se si pone sul tappeto l’esigenza di individuare non tanto le colpe dei singoli, quanto piuttosto le cause di eventi spesso economicamente disastrosi.

Se si guarda ad altre esperienze una sinergia virtuosa si è delineata quando il mondo assicurativo ha collaborato concretamente con le società scientifiche mediche, adottando nuovi approcci ed uscendo da una semplice e scontata riproposizione di modalità assicurative tradizionali come quella ormai storica della responsabilità civile auto.

Paradigmatico il caso della società scientifica dell’ASA (American Society of Anesthesiologists) che già nel 1984 iniziò a sviluppare alcuni programmi per migliorare la sicurezza dei pazienti e per prevenire le patologie iatrogene in campo anestesiologico. Uno di questi progetti elaborati dall’ASA era il «Closed Claims Project», ovvero lo studio della casistica relativa al incidenti occorsi in ambito anestesiologico, già conclusi in ambito giudiziario, effettuato da un’apposita commissione di esperti dell’associazione. Si tratta di una modalità per l’individuazione dei rischi in uno specifico ambito specialistico che ha consentito di ottenere dei significativi risultati anche in altri Paesi. I casi relativi a procedimenti per incidenti anestesiologici vengono raccolti negli Stati Uniti da 35 compagnie di assicurazione. Sono esclusi gli incidenti anestesiologici occorsi durante trattamenti odontoiatrici.

In genere ogni fascicolo comprende le cartelle cliniche, inclusa ovviamente quella anestesiologica, le relazioni sul caso da parte del personale coinvolto, le consulenze dei vari specialisti sul caso, le dichiarazioni testimoniali rese in udienza, il testo della sentenza (outcome report) e il costo del risarcimento o della transazione. Le indagini sui fascicoli (file) vengono svolte da una task force di medici, specialisti anestesisti dell’ASA di cmprovata esperienza clinica, specializzata in tale compito. Già a partire dall’88, con la raccolta e lo studio dei fascicoli dei primi 800 closed claims, fu possibile individuare la causa e proporre delle soluzioni efficaci per un «adverse event» rilevato in 14 casi di anestesie spinali, durante le quali si era osservato un arresto cardiaco inatteso. Successivi studi, originati sempre dalle analisi del Closed Claims Project evidenziarono via via altre criticità ed anche in questi casi vennero proposte delle soluzioni o delle specifiche “linee guida”.

Si tratta di intraprendere iniziative coraggiose, ma necessarie per il bene di tutti, uscendo dalle tradizionali posizioni delle varie istituzioni pubbliche e private interessate (delle autentiche “comfort zone” delle strutture, in cui le il cambiamento non è possibile poiché non sono stimolate e perché non si attivano a sufficienza per mettersi in gioco).

Carlo Scorretti
Già Direttore, sino al 2018, della struttura di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Trieste



05 aprile 2024
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