Sorvegliare e curare
di Gemma Brandi
20 FEB -
Gentile Direttore,è davvero segno dei tempi il fatto che ormai gli psichiatri 2.0 si siano allineati agli epigoni basagliani - ben lontani dalla lucidità clinica e illuminata di Franco Basaglia - sostenendo come rivoluzionaria la forma più deteriore di noncuranza (disinvolta trascuratezza) circa l’oggetto del loro interesse, vale a dire la sofferenza mentale dell’uomo, specie quella severa e complessa, la cui cura non può che essere impegnativa e composita, con l’ambizione di una capacità prognostica avveduta e tutt’altro che perigliosa per quanti con questa si cimentino.
Capita sempre più frequentemente di leggere, anche sulle pagine di questo giornale, l’appello di psichiatri di varia estrazione a che non siano loro affidate la “SORVEGLIANZA”, la “COLLOCAZIONE” di individui affetti da malattia mentale che abbiano commesso, in conseguenza dimostrabile della loro condizione psicopatologica, dei crimini, così incappando nelle maglie della Giustizia. Per inciso, Lorsignori gli psichiatri che vorrebbero restituire il ‘luminoso’ diritto alla pena a detti individui (in barba alla pietas del Diritto Romano che fu in grado di riconoscere fin da allora, ai folli, un livello di irresponsabilità che ne rendeva eccessiva ogni condanna: una ‘distinzione’ in melius, altro che una discriminazione in peius!) non sanno, né intendono sapere cosa sia un luogo di pena. Ignorano persino che, la stragrande maggioranza dei soggetti che per malattia mentale sono affidati, in libertà, alle loro cure, andranno a costituire la schiera di coloro dai quali, dopo il reato, essi ambiscono a prendere rapide e codarde distanze.
Se il ragionamento teorico alla base del Codice Rocco intese distinguere il fatto, di cui si sarebbe occupato il Diritto come scienza principe, dal reo, dal soggetto che quel reato commette, affidando costui alle scienze pretese ancillari, non ultima la psichiatria, così operando una scissione che non ha certo dato frutti mirabili; se ciò accadde un secolo fa, l’attuale ragionamento degli psichiatri pretesi avveduti, nell’affermare la volontà di non prendersi carico del reo folle, lascerebbe questi in balia di una Giustizia che delimitò al fatto reato il proprio interesse e i propri compiti. Ne deriverebbe l’inevitabile abbandono della persona colpevole e sofferente.
Questi psichiatri sedicenti avveduti sembrano soffrire di una discreta ignoranza storica. Non scriverebbero quanto scrivono, inneggiando al ritorno in carcere del malato di mente, se sapessero che le origini della Psichiatria affondano proprio nella scelta della Medicina e della Giustizia di non lasciare in carcere persone sofferenti che in carcere non era opportuno che stessero proprio per i loro problemi mentali. Così nacque la Psichiatria a Firenze, in Francia, in Gran Bretagna.
Questi psichiatri pretesi avveduti ignorano anche in cosa consista la “CURA” del malato di mente, e lo dimostrano quando si dicono disposti ad accogliere nei reparti ospedalieri (i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), per “CURARLI”, i rei folli di cui auspicano la detenzione. Forse che la cura del malato di mente si limita a una pur corretta e rapida terapia psicofarmacologica? Alzi la mano chi osa sostenerlo! Forse che non richiede, tale cura, oltre a una competenza biologica, fisiologica, psicopatologica e dunque farmacologica, anche una competenza relazionale, la capacità di orientarsi nelle dinamiche della mente, di avvicinare il soggetto sofferente, di stabilirne la corretta e utile “COLLOCAZIONE” nella ricca rete residenziale, semiresidenziale, ambulatoriale, territoriale di cui la Salute Mentale dispone, all’interno dei percorsi e dei progetti di Salute Mentale? Non è che per caso qualcuno pretenda di discriminare il diritto alla cura del reo folle rispetto a quello degli altri folli?
Perché mai uno psichiatra accorto e consapevole della sua funzione socialmente rilevante dovrebbe offendersi dalla richiesta di un perito di conoscere la sua opinione sulla corretta “COLLOCAZIONE” di un malato di mente? Il riduzionismo biologico della cura psichiatrica non fa onore allo psichiatra preteso avveduto, no, non gli fa onore, e non rende onore alla Legge 180, troppo spesso chiamata in causa in maniera superficiale e/o ideologica.
Si sta consumando il suicidio della Salute Mentale, attraverso il suicidio della Psichiatria. E’ dunque urgente una riflessione che chiami in causa anche la Psichiatria, ma non la lasci sola in preda alla spinta autolesiva dell’oggi; una riflessione interdisciplinare che getti le basi per la nascita di un nuovo organismo sociale e istituzionale, anzi interistituzionale, un organismo che tenga conto degli insegnamenti elargiti dal Diritto Romano, dalla Psichiatria nascente a Firenze a metà del Seicento e quindi in Francia e in Gran Bretagna di lì a un secolo e passa, dall’imporsi di uno sguardo sull’uomo delinquente che diede avvio alla Antropologia Criminale a Torino, dalla nascita della Salute Mentale a Trieste, dalla dimostrazione, a una Salute Mentale adulta e consapevole della sua forza, di come fossero debite e possibili cura e prevenzione a vantaggio del malato di mente incline a manifestare la propria sofferenza per il tramite di condotte antisociali, cosa accaduta a Firenze un trentennio fa.
E ora proviamo a immaginare che dei giovani accademici comprendano l’importanza di questo discorso e diventino vessilliferi di un progetto con cui, una volta conosciuto il contenuto del binomio “sorvegliare e punire”, del motto “vigilando redimere”, possano costruire l’impalcatura pratica di una nascente endiadi: “sorvegliare e curare”. Una endiadi che guardi oltre i luoghi comuni della ideologia, della accidia, della ignoranza, aprendo nuovi orizzonti, orizzonti che restituiscano alla parola CURA il senso che l’uomo impara nascendo, il senso noto a ogni genitore e a ogni maestro degni di attribuirsi tali significanti.
Gemma BrandiPsichiatra psicoanalistaEsperta di Salute Mentale applicata al Diritto
20 febbraio 2024
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