Gentile Direttore,
è sicuramente vero, per diventare infermieri, come ribadisce Silvestro Giannantonio “bisogna studiare tanto e sempre di più”. E, soprattutto, non farsi ammaliare dai canti di improbabili sirene e dai richiami di altrettanto improbabili “Lucignoli” di collodiana memoria.
È vero, si tratta di “fake news”, ma a volte le cosiddette bufale possono anche travalicare il confine e trasformarsi nel reato di truffa. L’art. 640 del codice penale prevede che “chiunque, con artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032”.
Ma l’argomento è ancora più profondo e mette in evidenza alcune fragilità del nostro sistema sociale, del mercato del lavoro e anche valoriale.
Una domanda innanzitutto: cosa spinge talune organizzazioni a diffondere notizie false circa improbabili percorsi per diventare infermieri? Probabilmente, questioni di denaro. Queste notizie riescono a trovare una base, un alleato in altre informazioni, a tutti note: c’è carenza di infermieri e c’è il problema dell’attrattività della professione. Complice, è sicuramente, anche l’istantaneità della comunicazione via social.
Promettendo di velocizzare i percorsi di studio che invece hanno una ben precisa regolamentazione da tanti anni, si comunica anche, direttamente o indirettamente che:
Qualcuno potrebbe dare ascolto alle sirene e, in qualche modo, farsi per così dire incantare, e quindi raggirare, nell’illusoria speranza di raggiungere determinati obiettivi utilizzando scorciatoie che portano solo a un alleggerimento del portafoglio e un allontanamento da vere professionalità.
Diventare infermiere, non è mai stato facile, non è facile, non può essere facile. Perché è una cosa seria. Deve comportare un tempo di studio, di riflessione, di impegno, che non finisce con la Laurea, casomai inizia. Rendere fintamente facile un percorso che non lo è, non fa altro che attirare chi questo tempo non lo vuole investire, chi non ama il processo di apprendimento, ma solo un rapido risultato. Questo non contribuisce di certo a rendere più attrattiva una professione, anzi, si rischia di renderla meno seria. E quindi sulla lunga distanza, paradossalmente, la può rendere ancora meno attrattiva, perché non promette standard elevati che avvicinano coloro per i quali lo studio, l’impegno e il tempo di apprendimento sono ancora valori coerenti con la professione che vorrà svolgere.
Va detto con estrema chiarezza: lo status di professionista lo si conquista con lo studio e, successivamente, lo si mantiene con un aggiornamento serio e costante. La professione, qualunque essa sia, ma ancor di più se ha a che fare con beni che trovano una protezione a livello costituzionale come la salute, merita rispetto e non può essere oggetto di “fake”.
L’esercizio di una professione è esplicazione, innanzitutto, di un diritto costituzionalmente riconosciuto e tutelato quale è, appunto, in base all’art. 4 della Costituzione, il diritto (e dovere) al lavoro, inteso come libertà di scegliere e di accedere al lavoro. E per quanto riguarda l’esercizio di una professione, la Costituzione è chiara. L’art. 35, 5° comma dispone che il presupposto per l’esercizio di una professione, ossia per l’abilitazione a detto esercizio, è il superamento di un esame di Stato, che ha la funzione di verificare, in via preventiva, nell’interesse della collettività, l’esistenza dei requisiti di capacità tecnica, di attitudine e di preparazione necessarie per un serio esercizio professionale. La Costituzione non ammette scorciatoie. Le norme e la deontologia non ammettono scorciatoie. I valori non sono mai stati scorciatoie. Le competenze (quelle vere) non si acquisiscono in fretta.
Annalisa Pennini
Giannantonio Barbieri
Avvocato esperto di Diritto Sanitario