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L’“anestetizzazione” dei professionisti sanitari 

di Paola Arcadi

09 GEN - Gentile direttore,
al termine di ogni anno si è soliti fare bilanci. Mi piacerebbe poter raccontare di un 2023 particolarmente ricco di passaggi proficui per gli infermieri, ma credo che direi qualcosa di ingeneroso e illusorio. Dopo la metafora degli eroi del Covid, che ancora oggi fa tremare le vene di irritazione, gli eventi hanno condotto sempre più sempre più verso quella che definisco un “anestetizzazione” dei professionisti sanitari.

Carenza di personale, sanatorie discutibili, retribuzioni al limite della dignità, condizioni lavorative difficili, progressione di carriera limitata...questo si legge, questo si vive, questo si respira pressoché ovunque negli ambiti di esercizio professionale. Ma, a differenza di alcune gloriose iniziative congiunte di un tempo ormai passato, pare che non si trovino più le forze neppure per denunciare compiutamente tutto questo e per reagire a un insieme di eventi che stanno (e lo dico con serena consapevolezza) conducendo alla scomparsa degli infermieri dal panorama della cura.
L’anestetizzazione, appunto.
E chi non è anestetizzato, trova il modo di reagire nell’abbandono della professione.

E’ di poche settimane fa lo studio dell’Università degli Studi di Genova e della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni infermieristiche che ha messo in luce che quasi il 60% degli infermieri che lavorano negli ospedali italiani è in burnout e stressato.

A questo si aggiunge anche che il 38.3% si è detto insoddisfatto a causa sia dello stipendio (77.9%) sia della mancanza di opportunità di avanzamento professionale (65.2%) che per il proprio ambiente di lavoro frenetico e caotico (43.4%). Solamente il 3.2 per cento ha detto che trovava «eccellente» la sicurezza del paziente nel proprio ospedale e la carenza di personale è il motivo prevalente delle cure mancate (50%). Del resto, indipendentemente dal turno di lavoro, ogni infermiere assiste mediamente 8.1 pazienti contro uno standard indicato come ottimale di non più di sei.

Insomma, numeri che più volte sono stati portati all’attenzione dei decisori politici, ma senza un reale e coraggioso cambio di rotta.

Il problema riguarda il presente, ma anche e soprattutto il futuro. Io mi occupo di formazione agli studenti del Corso di Laurea in Infermieristica, e mai come quest’ultimo anno mi sono più volte domandata: che mondo presentiamo ai futuri professionisti?

Diciannovenni fragili, una generazione con valori, aspettative, motivazioni sempre più lontane da quelle della popolazione di professionisti che popolano i contesti clinici e che sempre più rischia di dividere, di alimentare l'incomprensione. Ragazzi che per una quota non poco rilevante non hanno scelto questa professione. Anche su questo i numeri gridano: non si saturano i posti a bando, l'attrattività della professione è pressoché nulla.

I primi momenti in cui i nostri studenti frequentano i tirocini clinici sono spiazzanti, perché entrano a contatto con la frustrazione, con la fatica, con l’incapacità di trasmettere loro il Senso della Cura. I più riescono a dire “non farlo, cambia strada, chi te lo fa fare”. E si può solo immaginare la conseguenza di tutto questo: abbandono in corso di studi e un lavoro immane di sostegno e tenuta da parte di chi li accompagna nel percorso triennale.

Il nostro ruolo di formatori è quello di "accendere fuochi" diceva qualcuno, di educare nel senso di aiutare a sviluppare le potenzialità di ciascuno. E per farlo serve un terreno fertile, serve coerenza, serve crederci e mostrare i nostri fuochi accesi, i nostri occhi che brillano.

Chiunque ha un ruolo nel sistema salute, che sia un infermiere clinico, un docente, un coordinatore, un Direttore, un politico, provi a chiedersi: “come posso io contribuire a creare un futuro migliore per loro, che sono il NOSTRO futuro?
Credo che questa domanda possa aprire varchi su quel Senso che pare perduto.

C’è però una cosa meravigliosa che non si può non ricordare anche al termine di questo faticoso 2023, ed è la Cura che anche in condizioni estremamente disagiose i nostri infermieri non smettono mai di agire nei confronti dei cittadini e dei pazienti. Credo sia incredibile e inaccettabile che un sistema si debba poggiare sulla buona volontà e sulla competenza dei singoli, ma almeno un dovuto grazie credo sia d’obbligo.

Per il resto, se si lavorasse con l’obiettivo di far star bene chi cura, forse si troverebbero interstizi entro i quali intervenire; a partire dall’evitare i tanti sprechi di denaro dovuti all’ over prescription - figlia di quella medicina difensiva che ha reso la salute una fabbrica di prestazioni - fino a pensare a spazi di cura e di benessere per i curanti, l’investire seriamente in stipendi dignitosi, e tante altre possibilità per evitare la scomparsa degli infermieri prima, e dell’intero sistema sanitario pubblico poi.

Chissà cosa scriveremo alla fine del 2024 che si sta affacciando.
Spero siano parole nuove.

Paola Arcadi
Infermiera, formatrice, direttore didattico Corso di Laurea in Infermieristica UNIMI, ASST Melegnano e della Martesana

09 gennaio 2024
© Riproduzione riservata

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