Gentile Direttore,
la dolorosa vicenda della Collega Barbara Capovani riporta in primo piano una serie di questioni relative alla attuale situazione della psichiatria in Italia. Sono questioni note da tempo e sollevate in più sedi, ma che di fatto non hanno avuto alcuna risposta reale. Prima di indicarle è bene premettere tre riflessioni su alcune questioni che sono state indicate anche in questo caso e che rischiano di distogliere dalle questioni reali.
La prima è che non si tratta di una violenza sulle donne: è una violenza su operatori della psichiatria che non conosce genere e che, in questo caso, si è accanita su una donna.
La seconda è che non si tratta semplicemente di una violenza su operatori sanitari: la psichiatria è di fatto particolarmente esposta a questi rischi in relazione ai problemi trattati, e alcuni elementi che vedremo aggravano questa realtà
La terza è che le tecniche di de-escalation o i corsi di difesa personale, di cui gli amministratori di fanno belli, in queste situazioni non servono a nulla. Le tecniche di de-escalation non hanno mai dimostrato di poter diminuire la frequenza di questi eventi; quanto ai corsi di difesa personale, di cui personalmente so qualcosa in relazione alla mia pratica di circa 35 anni di arti marziali, rischiano facilmente, con qualche lezione di un qualcosa che richiede apprendimento di anni, di dare solo un senso di falsa e pericolosa sicurezza, oltre ad essere del tutto inutili, anche nel praticante più esperto, a fronte di una violenta aggressione di sorpresa che impedisca ogni risposta. Ed in ogni caso, proprio nella mia duplice veste di psichiatra e praticante di arti marziali, mi sento di dire che non è pensabile andare al lavoro con l’idea di andare su un ring in cui i problemi con i pazienti si risolvono con la violenza fisica ed i combattimenti.
Le questioni vere sono altre e provo ad accennarne.
In maniera che sembrerebbe profetica, ma è solo buon senso disincantato, avevo posto recentemente proprio su Quotidiano Sanità il problema del possibile incremento di atti di violenza da parte di pazienti psichiatrici. Mentre la violenza del singolo paziente non è prevedibile, è ampiamente dimostrato che la violenza nelle popolazioni di pazienti affetti da specifici disturbi può essere ridotta da una buona adesione ai trattamenti posti in atto dalle strutture territoriali. E che. in questo senso, il gravissimo impoverimento delle risorse dei servizi di salute mentale, rendendo problematici questi livelli quantitativi e qualitativi di assistenza, peggiora di fatto il rischio. Questo è noto da tempo, detto e ridetto in infinite sedi, ma nulla continua ad essere fatto.
La Legge 81/2014 che ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, avvenuta per motivi ideologici ma forse anche sotto la spinta della necessità di ridurre il numero dei detenuti per non incorrere in sanzioni europee, non ha affrontato alcuni aspetti che venivano a crearsi. Al contempo lo stesso strumento della misura di sicurezza è stato ridefinito, limitando il possibile tempo di applicazione per i pazienti autori di reato. Di fatto questo esperimento di salute pubblica ha reintrodotto la gestione della pericolosità nei servizi pubblici di salute mentale, modificando ancora una volta il senso della Legge 180/1978 - questa volta non sotto gli occhi distratti, ma con il consenso entusiasta degli psichiatri - senza dare agli operatori né maggiori risorse, né gli strumenti giuridici per poter gestire le situazioni. Quello che è avvenuto nel tempo è stata la costruzione di alcune Rems, assolutamente insufficienti a gestire le effettive necessità, mentre molti pazienti, a volte più violenti che malati, sono collocati dai Magistrati a vario titolo in SPDC, fiduciosi sulle porte chiuse e su un obbligo di sorveglianza, e pazienti autori di reato sono affidati regolarmente ai Centri di Salute Mentale o alle Comunità Terapeutiche. Il tutto con il paradosso di una posizione di garanzia ex art 40 cp, che rende lo psichiatra responsabile degli atti che farà il paziente, che invece ne è di fatto ritenuto non responsabile per patologia. E senza parlare del peggioramento dello stigma nella visione popolare relativamente al lavoro dei servizi pubblici, da cui naturalmente è del tutto esente la psichiatria privata.
Si è venuta soprattutto a creare una logica per cui comunque sempre e solo la psichiatria si deve occupare della violenza nei pazienti psichiatrici, con una equivalenza fra cura e gestione della violenza che ha spesso fatto ritenere alle Forze dell’Ordine che non fosse loro compito intervenire, e che ha portato, grazie spesso a perizie improntate più alla psichiatria popolare che alla letteratura scientifica, ad una situazione dove i Magistrati prescrivono la cura e gli psichiatri gestiscono la pena. Il tutto illudendosi non solo che la clinica possa sempre curare la violenza in pazienti affetti da aspetti psicopatologici, ma, per estensione, che alla psichiatria debba essere affidata la gestione di tutti i problemi di violenza, come emerge in taluni protocolli di talune regioni in materia di aggressioni sul lavoro (vedi Quotidiano Sanità).
Ed anche su questi aspetti i problemi sono stati detti e ridetti, e non da oggi. Basti ricordare i dibattiti sulla chiusura degli OPG che Psicoterapia e Scienze Umane ha ospitato ancora dal 2015.
L’ultima questione riguarda il clima ostile che con il tempo si è venuto a creare contro il fare psichiatria clinica, con un atteggiamento antipsichiatrico di colpevolizzazione degli operatori dei servizi, che spesso non si limita alla psichiatra popolare. Questo porta a sottolineare in maniera corretta la esistenza di alcuni problemi (vedi la contenzione o un uso improprio degli psicofarmaci), ma dimentica l’enorme lavoro che gli operatori, in condizioni ormai inaccettabili, continuano a fare, al servizio dei pazienti ed a tutela della salute loro e della comunità.
Purtroppo l’esperienza ci dice questo: quanto accaduto a Pisa solleverà per qualche giorno molte parole, qualche riflessione e poche proposte. Ma solo per qualche giorno, dopo il quale tutto tornerà al solito fare finta che i problemi non esistano, traduzione pratica delle dichiarazioni pubbliche che la questione della salute mentale occupa un posto di assoluta rilevanza e priorità nelle agende di politici ed amministratori.
Andrea Angelozzi