Gentile Direttore,
faccio seguito al mio precedente intervento sul ruolo del “privato” in sanità, nel quale ho provato a fare di un po’ chiarezza tra “oggettivo” e “soggettivo”, ossia tra insegnamenti della teoria economica ed evidenze da un lato e opinioni personali dall’altro.
Se con quel contributo ho suggerito di tornare sui “banchi di scuola” perché non sia più mistificato il concetto di fallimento del mercato - ricordando che non sussiste alcuna giustificazione di carattere economico o sociale per la quale le prestazioni sanitarie debbano essere erogate esclusivamente da strutture di diritto pubblico -, ora mi preme invitare gli autori e i lettori che arricchiscono questa Rubrica ad associare quella teoria alla realtà del nostro Servizio Sanitario Nazionale.
Livio Garattini e Alessandro Nobili fanno menzione di evidenze alla base della loro posizione “a favore del pubblico”.
Si tratterebbe di “varie revisioni in letteratura” che dimostrerebbero che “il settore privato tende ovviamente a concentrarsi sui trattamenti più redditizi e/o quelli meno costosi”; a queste si aggiungerebbero risultati di studi che proverebbero che “l’assistenza integrata è favorita dalla presenza di un unico erogatore (logicamente pubblico) in quanto la frammentazione tra più servizi (pubblici e privati) risulta per definizione antitetica a tale concetto”.
Pur considerando, tuttavia, la fisiologica tendenza del mondo imprenditoriale al profitto, vale la pena ricordare come è strutturato il sistema di committenza del nostro SSN.
La funzione di tutela è garantita dalle Regioni che, per nome e per conto degli utenti, acquistano prestazioni sanitarie dalle strutture di diritto pubblico e di diritto privato accreditate.
Queste ultime non scelgono autonomamente né le tipologie di prestazioni da erogare né in che misura, in termini di volumi di attività, ma possono fornire alla popolazione, esclusivamente, quanto loro richiesto dalle Regioni in virtù di un rapporto che segue tre momenti fortemente regolamentati: l’autorizzazione, l’accreditamento e l’accordo contrattuale.
In altre parole, il mantra del “privato che rincorre il facile profitto e le prestazioni più remunerative”, si scontra con un modello dove le prestazioni delle strutture di diritto privato del SSN non sono scelte ma assegnate dal Pubblico e dove il privato accreditato è l’unico remunerato sulla base di tariffari nazionali, quando invece le strutture di diritto pubblico continuano a essere finanziate a piè di lista, a copertura di inefficienze e sprechi.
Non conosciamo quali siano i dati di letteratura che dimostrerebbero che le strutture di diritto privato possano scegliere di erogare le prestazioni più vantaggiose, e sembra difficile poter applicare al nostro sistema sanitario i risultati di studi selezionati e valutati, apparentemente condotti in contesti di libero mercato dei servizi sanitari.
In realtà, le evidenze che provengono dal nostro SSN dimostrano che, se esiste una contraddizione, questa si manifesta proprio nelle strutture ospedaliere pubbliche: si tratta di quel “privato puro” erogato da chi nasce con vocazione pubblicistica, in spazi pubblici, con strumenti e attrezzature pubbliche, finanziati con i soldi dei contribuenti italiani attraverso la fiscalità generale: l’intramoenia.
Come sottolineato da Cesare Fassari recentemente, in base all’ultimo Rapporto Agenas, “la percentuale tra le prestazioni di ricovero eseguite in attività libera professione e quelle effettuate in attività istituzionale” è stata, “negli anni 2019, 2020 e 2021, in alcune aziende (pubbliche) e per diverse prestazioni spesso superiore al 100%, tetto fissato dal Piano nazionale di governo delle liste d'attesa”.
Stiamo parlando di prestazioni a pagamento fornite da ospedali pubblici con tempi di attesa dimezzati rispetto al SSN.
Quanto riportato è parallelamente applicabile alla seconda evidenza menzionata dagli autori, quella relativa all’“assistenza integrata”: anche in questo caso si trascura il ruolo attuale e potenziale della regolamentazione pubblica nel definire rigidamente gli spazi di intervento, di integrazione e di collaborazione di ciascuna componente - quella di diritto pubblico e quella di diritto privato – nonché nello stabilire i margini di perseguimento dell’interesse finanziario da parte dell’una e dell’altra.
La conclusione è piuttosto chiara.
Non è la natura giuridica di una realtà – qualunque essa sia – a stabilirne fini e comportamenti, ma il contesto normativo e regolatorio.
Lo dimostra – sempre che sia ancora necessario dimostrarlo – l’attività privata nel pubblico e l’attività pubblica nel privato.
Barbara Cittadini