Gentile Direttore,
le malattie cerebrovascolari sono un problema prioritario di salute a livello mondiale con un impatto sociale molto rilevante. Tra queste, l’ictus è tra le principali patologie causa di morte e di disabilità. Secondo i dati del ministero della Salute del settembre scorso, nel nostro Paese è la prima causa di disabilità e la seconda causa di morte dopo le malattie tumorali e cardiovascolari.
Sono circa 90.000 ogni anno i ricoveri per ictus cerebrale. Di questi, circa il 20% sono recidive. Il 20-30% delle persone colpite da ictus cerebrale muore entro un mese dall’evento e il 40-50% entro il primo anno. Solo il 25% dei pazienti sopravvissuti ad un ictus guarisce completamente, il 75% sopravvive con una qualche forma di disabilità, e di questi la metà è portatore di un deficit tale da perdere l’autosufficienza.
Tanti pazienti colpiti, almeno altrettanti familiari coinvolti. Un impatto dunque sulla qualità della vita piuttosto pesante non solo per chi ne è colpito ma anche per i familiari e i caregiver dei pazienti. Gli effetti si traducono in ansia e depressione per familiari e caregiver e in un peggioramento degli esiti del percorso riabilitativo per i pazienti. In sostanza quello che si realizza è un circolo vizioso in cui gli effetti negativi su gli uni e su gli altri si autoalimentano.
Su questo, la letteratura internazionale, ma anche nazionale, come sottolinea il Dr. Gianluca Pucciarelli in una recente intervista a “L’Infermiere Online”, documenta il vissuto dei familiari e dei caregiver dei pazienti colpiti da ictus che non si sentono sufficientemente supportati e preparati a sostenerli una volta rientrati a domicilio.
Di fatto, familiari e caregiver non vengono coinvolti fin dall’inizio nel percorso di cura della persona colpita da ictus e più specificatamente nel percorso riabilitativo, se non in prossimità della dimissione: ma questo non è sufficiente per metterli nelle condizioni di supportare serenamente il loro caro.
Ciò che chiedono è di essere più supportati e più preparati. Una maggiore preparazione, un supporto mirato, come ha dimostrato un recente studio proprio su questo tema, evidenzia come la preparazione del familiare e del caregiver abbia un’influenza positiva oltre che sul proprio stato emotivo anche su quello del paziente con conseguente miglioramento della qualità di vita di entrambi e degli esiti del percorso di recupero del paziente.
Familiari e caregiver, quindi, vogliono e devono essere coinvolti nel percorso di cura del paziente colpito da ictus fin dall’inizio. E, se da un lato questo risponde a un bisogno manifestato, dall’altro accende l’attenzione su un’altra questione sottolineata peraltro anche dalla letteratura: quella del “tempo lavoro” che viene “perso/sottratto”. Questo perché il familiare e/o il caregiver quel tempo lo deve dedicare al supporto e all’assistenza del paziente sopperendo, forse, in alcune situazioni a un sistema di presa in carico e a una rete assistenziale non ben e/o sufficientemente strutturata sul territorio.
Marina Vanzetta