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Le radici della violenza sugli operatori sanitari

di Maria Ludovica Genna

14 MAR - Gentile Direttore,
il 12 marzo è stata finalmente riconosciuta e istituita la giornata Nazionale di Educazione e Prevenzione contro la violenza nei confronti del personale sanitario e sociosanitario. Già nel 2007 - lo Stato Italiano - aveva emanato la Raccomandazione n.8 per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari, comunicando che nel nostro Paese mancavano statistiche ufficiali sulla diffusione del fenomeno, ma occorreva adottare misure di prevenzione per arginare tale situazione, in cui si erano verificati diversi e univoci casi sentinella.
 
Nel 2020 viene promulgata la Legge 113/2020 che introduce l’Osservatorio Nazionale sulla Sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie, con una specifica norma che prevedeva un’articolazione di genere paritetica tra i componenti designati e parimenti l’istituzione della giornata di formazione contro tale violenza.
 
Nel frattempo, mentre nel 2007 si verificavano una lunga serie di nuovi eventi sentinella, giungendo a contarne 429 casi, da casistiche Inail si apprendeva che dall’anno 2016 all’anno 2020 vi sono stati più di 12mila casi di infortunio in occasione di attività lavorative - codificati come violenze, aggressioni, minacce e similari - con una media quindi di circa 2.500 casi l’anno.
 
Ad esserne più colpiti sono i “tecnici della salute”, ovvero infermieri ed educatori professionali normalmente impegnati in servizi educativi e riabilitativi. Nel 70% dei casi le vittime delle aggressioni risultano donne, dipendenti di ospedali e case di cura per il 64% e per l’80% operatori delle struttura di assistenza sociale residenziale e non.
 
L‘epidemia generata dal contagio con Coronavirus ha portato alla luce - di fatto - tutta quella serie di scelte della politica, avvenute dal 2008 in poi, caratterizzate da contrazioni dei livelli di assistenza del sistema sanitario, riduzioni del personale, aumento dei carichi lavorativi, congelamento degli stipendi dei professionisti, pensionamenti anticipati e, non ultimo, il cambiamento sottile della professione sanitaria, in cui si assisteva al fenomeno di una costante femminilizzazione, intesa come un aumento in percentuale di donne nel sistema sanitario.
 
Come riportato da Paula Franklin - ricercatore senior presso l’Istituto Sindacale Europeo (ETUI) di Bruxelles - in un lavoro dal titolo “La nostra incapacità di prevenire i rischi noti: sicurezza e salute sul lavoro nel settore sanitario durante la pandemia Covid 19”, la situazione lavorativa è peggiorata e in particolare quella femminile, perché la legislazione è stata disattenta nei confronti della Sicurezza di genere (EUOSHA 2014).

La domanda crescente di salute emersa in pandemia ha fatto sì che i posti di lavoro, nonostante lo sforzo dei sanitari, siano diventati irti di pericoli biologici e rischi psicosociali.
 
Si è generata così una cattiva organizzazione del lavoro caratterizzata da carenza di personale, straordinari eccessivi, un numero basso di riposi dal lavoro e di giorni di astensione lavorativa. Si è acuito il divario di genere con differenze salariali importanti, molto personale senior è stato richiamato in servizio e il personale junior è stato chiamato a svolgere ruoli nuovi senza sufficiente preparazione e privi di specifiche esperienze settoriali.
 
Ciò ha portato ad un inevitabile burn-out e a riflessi sulla qualità dell’assistenza. Il rinvio delle prestazioni non urgenti hanno, inoltre, creato arretrati di cure mediche, con palliativi come la telemedicina, senza che fosse fatta una necessaria l’alfabetizzazione della nuova metodica, insieme a tutti i carichi medico legali che tali prestazioni portano inevitabilmente con sé.
 
La pandemia ha reso difficile il rapporto tra il personale sanitario e il paziente, dato che gli operatori sanitari sono stati chiamati a gestire rapporti di grossa emotività e di malessere sociale degli utenti e dei familiari - che hanno subito male le restrizioni decise a livello centrale contro la diffusione del virus Covid 19 - oltre a dover gestire il rapporto fortemente interattivo con i pazienti colpiti dal coronavirus e da altre patologie durante l’erogazione della prestazione sanitaria.
 
Rendere gli ambienti lavorativi a dimensione benessere, investendo su politiche sanitarie non basate solo su criteri di economia, servirebbe a migliorare la qualità dell’assistenza e a garantire maggiore sicurezza negli ambienti di lavoro.
 
E’ auspicabile che l’Osservatorio Sanitario Nazionale cominci da subito a raccogliere dati e a promuovere iniziative di buone prassi in materia di sicurezza dei lavoratori e a realizzare corsi di formazione per operatori sanitari per la gestione dei conflitti e per il miglioramento della qualità di comunicazione con gli utenti.
 
Vorrei concludere con una frase di Nelson Mandela pubblicata come prefazione all’opuscolo - La violenza sul lavoro - dell’O.M.S e purtroppo quanto mai attuale nel contesto di oggi: “II nostro compito è quello di dare ai nostri figli – i cittadini più vulnerabili in qualsiasi società – una vita libera dalla violenza e dalla paura. A questo scopo dobbiamo impegnarci instancabilmente a costruire la pace, la giustizia e la prosperità non solo in ogni paese, ma anche in ogni comunità e tra i membri di una stessa famiglia. Dobbiamo occuparci delle radici della violenza. Solo a quel punto trasformeremo il carico del secolo passato da peso schiacciante a lezione di ammonimento.”
 
Dott. ssa Maria Ludovica Genna
Osservatorio Sanitario di Napoli

 

14 marzo 2022
© Riproduzione riservata

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