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Osteoporosi severa: in Regione Lazio accesso rapido ai farmaci innovativi ma serve migliorare l’organizzazione sul territorio

Fracture Liaison Service e piani terapeutici estesi ai medici di medicina generale. Nel secondo appuntamento organizzato da Fondazione Charta le proposte degli esperti per prevenire le fratture da fragilità e ottimizzare la gestione del paziente

11 OTT - Gestire l’innovazione terapeutica nell’ambito dell’osteoporosi. È stato questo l’argomento al centro del secondo incontro virtuale di una serie di tavoli regionali organizzati da Fondazione Charta dal titolo “Open discussion sul valore delle nuove terapie farmacologiche nel trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura”.
 
Il convegno ha voluto affrontare la tematica in Regione Lazio e ha visto la partecipazione di Achille Caputi, Professore ordinario Farmacologia, Università di Messina; Paolo Cortesi, Farmaco-Economista, Università degli studi Milano-Bicocca; Fondazione Charta; Fulvio Moirano, CEO, Fucina Sanità; Umberto Tarantino, Professore presso Policlinico Tor Vergata, Roma; Salvatore Minisola, Professore Ordinario di Medicina Interna, I Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Sapienza di Roma; Alessandra Mecozzi, Direttore UOC Farmacia Ospedaliera e verifica Appropriatezza Prescrittiva, ASL Roma 2; Gerardo Miceli Sopo, Direttore UOC Farmacia Ospedaliera Continuità, Ospedale Territorio e Distribuzione Diretta, ASL Roma 2 ed Emilia Scotti, Dirigente Farmacista, UOC Farmacia Ospedaliera 2 Continuità Ospedale Territorio e Distribuzione Diretta, ASL Roma 2 nonché Segretario Regionale SIFO Lazio.
 
Per poter parlare di innovazione terapeutica e di costo efficacia è necessario inquadrare prima la patologia, le sue risultanze sul Servizio sanitario nazionale e sui pazienti ed i precedenti trattamenti. L'osteoporosi è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta ad un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. L’incidenza di fratture da fragilità (FF) aumenta con l’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura e in Italia si stima che l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le FF per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. Inoltre, l’effetto della terapia antifratturativa è tanto maggiore quanto maggiore è il rischio iniziale.
 
Si capisce bene quanto sia importante per questa patologia l’azione di prevenzione primaria e secondaria. Come precisato da Achille Caputi, il rischio di una seconda frattura osteoporotica aumenta durante l’intero follow up e il rischio rimane imminente anche negli anni successivi. Inoltre, nelle donne in menopausa, una frattura, indipendentemente dall’essere traumatica o meno, comporta un rischio aumentato di nuova frattura. Ecco perché è importante intervenire tempestivamente con una terapia farmacologica: “Se andiamo a considerare i trial clinici vs placebo o vs vitamina D, vediamo che qualunque trattamento oggi disponibile comporta una riduzione del rischio di rifrattura. Possiamo quindi dedurre – ha precisato Caputi –  che i soggetti che hanno già subito una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture e che il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Inoltre, il rischio sembra elevato immediatamente dopo la prima frattura specialmente nell’anno seguente e tale condizione e rimane fino ai 10 anni successivi”. I farmaci che sembrano agire in modo più efficace nella prevenzione di una rifrattura “sono i farmaci anabolizzanti come la teriparatide o il romosozumab”, ha proseguito l’esperto.
 
Ma facciamo un passo indietro. “L’osso viene continuamente rimodulato: abbiamo due distinti meccanismi, uno di modellamento osseo in cui la formazione dell’osso inizia direttamente dagli osteoblasti su superfici quiescenti e poi abbiamo un rimodellamento osseo che inizia nel momento in cui l’osso comincia ad essere distrutto dagli osteoclasti”, ha spiegato Caputi. Questo meccanismo, che si ripete nel tempo, può subire modificazioni con il passare del tempo. La premessa è doverosa per inquadrare meglio l’argomento. Negli anni la ricerca scientifica è infatti riuscita ad intervenire, grazie a farmaci specifici, su questo meccanismo. Per molto tempo la cura dell’osteoporosi si è basata su una classe di farmaci cosiddetta ad antiriassorbimento, farmaci questi di prima linea che intervengono sugli osteoclasti e che riducono il rischio di fratture, ma che non intervengono sulla stimolazione degli osteoblasti e quindi sulla ricostruzione dell’osso. Con l’innovazione, grazie ai farmaci anabolici, siamo arrivati anche a questa nuovo approccio terapeutico. Il problema di questi ultimi è che “dopo aver eseguito una terapia con anabolici, sarà necessario un farmaco antiriassorbimento per evitare il declino della densità ossea”.
 
L’ultima frontiera dell’innovazione ci fa capire meglio quanto sia necessario un radicale cambiamento nel trattamento delle fratture da fragilità. “Nel processo di modellamento e rimodellamento dell’osso agisce anche la sclerostina, una glicoproteina prodotta dagli osteociti, la cui attività è quella di inibire l’attività degli osteoblasti. Bene, inibire con un anticorpo monoclonale la sclerostina porta naturalmente ad un aumento di formazione dell’osso”. Appare evidente quindi che “nei pazienti con rischio molto elevato (di rifrattura ndr), la terapia con farmaci ad attività anabolica o bone builder deve essere considerata di prima linea”, ha precisato Caputi. “Studi di comparazione tra farmaci anabolici/bone builder e anti-riassorbitivi suggeriscono inoltre di iniziare subito la terapia anabolicain questi pazienti ad alto rischio. Non solo, se confrontiamo i farmaci anabolizzanti con l’anticorpo anti-sclerostina, notiamo che quest’ultimo agisce molto prima ed in maniera molto più rapida con conseguente beneficio per i pazienti”.
 
Prevenire le rifratture è la priorità per Salvatore Minisola. Per fare questo occorre intervenire sicuramente sugli stili di vita e successivamente con un tempestivo e adeguato intervento terapeutico. Come abbiamo visto, i farmaci per il trattamento dell’osteoporosi si dividono in antiriassorbitivi e anabolici: “I primi agiscono sugli osteoclasti che distruggono l’osso. Quando però la trabecola dell’osso è perforata non c’è nessun farmaco antiriassorbitivo in grado di ricostruire la normale architettura del tessuto scheletrico. I secondi, invece, non solo stimolano le cellule che costruiscono l’osso, cioè gli osteoblasti, ma sono in grado di agire anche sul modellamento dell’osso”, ha spiegato Minisola. “Non v’è dubbio che l’efficacia nel ridurre l’incidenza di nuove fratture sia sicuramente maggiore con i farmaci anabolici e questa efficacia si ha già nei primi sei mesi di terapia”, ha poi aggiunto.
 
In questo contesto si inserisce l’innovazione terapeutica. “Il romosozumab ha delle proprietà particolari in quanto agisce sull’aumento della formazione ossea e sul decremento della distruzione”. In altre parole, “con questo farmaco abbiamo la possibilità di costruire osso e di ridurre la distruzione scheletrica”. Dalla letteratura noi sappiamo che “dopo un anno di terapia con romosozumab, seguito da un anno con antiriassorbitivo, abbiamo lo stesso guadagno in termini di densità minerale ossea, sia a livello lombare che femorale, che otterremmo dopo circa sette anni di terapia con antiriassorbitivo. In sostanza, in breve tempo noi siamo in grado di guadagnare una notevole quantità di tessuto scheletrico, cosa questa estremamente importante”, ha concluso Minisola.
 
I costi sono ovviamente l’altra faccia della medaglia. In ottica di carico economico “l’impatto maggiore è dato dalle fratture”, ha rimarcato Paolo Cortesi. Queste comportano dei costi “sia nel breve periodo, per la gestione della frattura stessa, sia nel lungo periodo per la gestione delle conseguenze. Naturalmente ci sono differenze a seconda del sito di frattura, con la frattura all’anca che rappresenta una delle sedi più gravi perché quasi sempre comporta ricovero”, ha proseguito l’esperto. L’ospedalizzazione è l’aspetto principale legato ai costi diretti a carico del Servizio sanitario nazionale. “Rispetto ad altri paesi europei, in Italia la durata media di ospedalizzazione è molto alta, attestandosi sui 19 giorni, con un costo medio per le fratture d’anca di circa 21 mila euro per paziente. Per quanto riguarda i costi associati alla frattura – ha specificato - in Italia parliamo di circa 9 miliardi e mezzo all’anno. Questi costi, facendo una stima, potrebbero arrivare a 12 miliardi nel 2030”. A questi costi si aggiungono quelli legati alla perdita di produttività dei soggetti con osteoporosi. Nonostante la maggior parte delle fratture da fragilità si verifichi in pazienti anziani, quando ciò avviene in età lavorativa, in Italia, si stima “che si perdano circa 95 giorni lavorativi per mille individui”. A questo si legano anche i costi riguardanti l’assistenza del paziente da parte di famigliari e caregiver.
 
Migliorare la cura dell'osteoporosi puntando sulla prevenzione delle fratture e quindi ridurre i costi a queste associati sono una sfida complessa per i servizi sanitari, ma è anche una di quelle sfide che passa necessariamente dall’innovazione terapeutica. “Da uno studio svedese condotto su una sequenza di trattamenti basati sull’anticorpo monoclonale romosozumab”, ha spiegato Cortesi, “si evince una riduzione dei costi legati alle morbidità e alle ospedalizzazioni, un aumento di investimenti in termini di spesa farmaceutica a fronte però di un aumento di QALY, cioè anni di vita aggiustati in base alla qualità, e un aumento di aspettativa di vita. Sono fondamentali quindi approcci atti a prevenire le fratture per diminuire questo carico gestionale di risorse”.
 
Ma dove andrà a collocarsi questo nuovo farmaco, si chiede la dott.ssa Alessandra Mecozzi, vista anche l’esigenza di rendere l’innovazione accessibile in modo rapido. “Nella Regione Lazio non c’è più il PTOR quindi la regione è sempre molto attiva nel rilevare i bisogni nei nuovi farmaci e nel promuovere nuove gare proprio per accorciare i tempi di ingresso delle molecole e rendere possibile l’accesso del farmaco compatibilmente con le regole amministrative previste dal codice degli appalti”, ha precisato Mecozzi. “Per il romosozumab, trattandosi di un anticorpo monoclonale, probabilmente sarà previsto un piano terapeutico web based”.
 
Dello stesso avviso anche Gerardo Miceli Sopo che ha ricordato come“nel Lazio i farmaci innovativi, o di nuova generazione, hanno ormai un canale privilegiato di utilizzo quindi dopo circa 40-50 giorni dall’autorizzazione sono disponibili per l’assistito, tempi che in altre regioni sono molto più lunghi”. Vi è però un problema ravvisabile nella comunicazione: “il mancato ritorno di informazioni crea difficoltà nel comprendere certe procedure. Ad esempio i registri Aifa vengono visti come un adempimento burocratico piuttosto che come uno strumento di confronto”. È quindi necessario svolgere un lavoro che aiuti concretamente l’integrazione tra ospedale e territorio e tra tutti gli operatori.
 
Serve dunque uncambio di paradigma anche a livello organizzativo dall’alto. A ravvisare però qualche perplessità sulle effettiva possibilità di un cambiamento vero è Fulvio Moirano. “C’è un problema di comprensione tra i vari operatori che si occupano di questi temi, dal ministero della Salute e dalle Regioni, da una parte, e dal ministero dell’Economia dall’altra”. Da sempre i decisori hanno posto la loro attenzione sul problema dei costi e della spesa ma con l’arrivo dei 15,6 miliardi previsti per la Missione salute dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra che “tutto il sistema sanitario pensi che il tema della compatibilità economica non ci sia più”, ha precisato Moirano. “A mio parere, invece, c’è il rischio che ci sia anche di più nelle fasi successive se non saremo in grado di utilizzare questi finanziamenti. Se metteremo in campo iniziative che prive della compatibilità economica che pensiamo, ci troveremo solo costi aggiuntivi senza avere più il finanziamento”. Una occasione questa più unica che rara che sarebbe grave non saper cogliere.
 
Ma perché parliamo di problema di governance. Come fa notare Moirano, la pandemia ha messo in evidenza un tema importante: la deroga delle norme e delle leggi preesistenti. “Lo stato ha dovuto derogare sia in termini di assunzioni sia in termini di acquisizioni di beni e servizi, prendendo atto quindi che le procedure che avevamo non erano efficaci. C’è quindi da fare un ripensamento di tutte le procedure sia per l’introduzione dell’innovazione sia per la gestione della quotidianità”, ha precisato ancora l’esperto. “Serve ora mettere in pratica ciò di cui si parla da anni”, cioè rendere concreti gli interventi sul territorio. Per fare questo c’è bisogno di  “riempire di contenuto le case di comunità, previste nel PNRR, per fare della prevenzione primaria e secondaria sul territorio. Stiamo parlando di 8 milioni di pazienti cronici, stiamo parlando di una patologia cronica che avrebbe possibilità di prevenzione”. La strada da percorrere delineata da Moirano sarebbe quella di eliminare totalmente tutte le attività non necessarie all’interno dell’ospedale per poter recuperare i fondi da investire poi nel territorio con particolare attenzione alla medicina generale.
 
Una via per ottimizzare il trattamento dell’osteoporosi, andando a migliorare la condizione dei pazienti e riducendo i costi, potrebbe essere quella delle Fracture Liaison Service (FLS)delineato da Umberto Tarantino. Le FLS “potrebbero rappresentare un programma di prevenzione terziaria per la gestione del paziente fratturato affiancato da un programma di formazione per la presa in carico del paziente da parte dell’infermiere”, ha detto l’esperto facendo anche un quadro delle situazione del Lazio. “In Italia abbiamo circa 100 mila fratture all’anno; di queste 75 mila sono donne. Nel Lazio abbiamo circa 8 mila fratture e di queste 6.400 sono donne. Sul totale italiano delle fratture del femore prossimale, il Lazio rappresenta l’8,5% circa. Una pregressa frattura da fragilità aumenta il rischio di fratture successive”. Guardando nello specifico alle fratture da fragilità, la situazione si complica. “Vi è una sottostima delle fratture minori a cui si accompagna una sottostima delle fratture vertebrali che spesso sono asintomatiche. Tutto questo porta ad una mancata diagnosi di frattura da fragilità. Questa situazione viene aggravata dal fatto che in Italia non vi è un codice per identificare le fratture da fragilità e quindi manca una registrazione della frattura da fragilità che porta inevitabilmente a un mancato trattamento che a sua volta va ad aumentare il rischio di rifrattura”.
 
Come agire dunque? “Attraverso un percorso assistenziale che vede in primis l’istituzione di FLS, cioè centri di eccellenza di III livello, e ove non possibile di I e II, in grado di sviluppare un coordinamento multidisciplinare tra le varie unità ospedaliere per avviare celermente la terapia anti-rifratturativa immediatamente dopo l’episodio di prima frattura. Occorre quindi un network multidisciplinare e interdisciplinare e un cosiddetto Bone Care Nurses, cioè unità infermieristiche che abbiano una conoscenza avanzata dell’osteoporosi”, ha spiegato Tarantino. L’infermiere così specializzato può intervenire su più livelli di prevenzione, dalla primaria alla secondaria, per ottenere anche una migliore aderenza alla terapia. “Obiettivo delle FLS è dunque ridurre le fratture da fragilità e ridurre il gap di trattamento”. Non solo, “nel Lazio sappiamo che l’applicazione di questo modello potrebbe portare ad una riduzione anche dei costi di almeno due milioni l’anno, con un risparmio di circa il 2%”.
 
L’attenzione agli strumenti regolatori però non deve mai mancare, come sottolineato da Alessandra Mecozzi e da Emilia Scotti. Parliamo per esempio della nota 79 dell’Aifa sull’appropriatezza prescrittiva, dei piani terapeutici e dei registri. “Tutti questi strumenti devono essere correlati all’andamento clinico e alle innovazioni dei vari farmaci”, ha spiegato Scotti. Hanno quindi una grande importanza in termini di appropriatezza “per garantire il farmaco giusto al paziente giusto e sono uno strumento di valutazione di efficacia clinica ed epidemiologica con un riscontro anche di sicurezza e di impatto economico. In alcune regioni – ha proseguito la rappresentate Sifo - sono stati elaborati dei PDTA che riescono a guidare nella sua assistenza sanitaria”. In questo senso un PDTA potrebbe proprio “favorire l’integrazione tra i vari operatori, ridurre la variabilità clinica e diffondere l’evidence based medicine. Nel piano nazionale della cronicità i PDTA vengono indicati come le strategie per migliorare la gestione della cronicità” e la Regione Lazio sta andando proprio in questa direzione. “A dicembre 2020, con una determina ha inserito delle linee di indirizzo per la stesura dei PDTA a indicazione del fatto che la regione è propensa a valutare queste scelte per il paziente ed è propensa a sviluppare dei criteri metodologici per assicurare omogeneità nella loro diffusione”.
 
Certo è che per una reale ottimizzazione della presa in carico del paziente con osteoporosi, che riguardi sia gli aspetti di spesa che quelli di salute, serve tendere la mano al medico di medicina generale il quale però, come precisato da Fulvio Moirano deve essere il primo a “riappropriarsi del proprio ruolo professionale.
 
Tutti concordi nel sottolineare come i piani terapeutici dovrebbero essere gestiti in modo differente.“Se i medici di base potessero riprescrivere i farmaci sottoposti a piano terapeutico ogni sei mesi o ogni anno (a seconda del farmaco ndr) e il medico specialista, sempre in contatto con il medico di base, potesse vedere il malato ogni due anni, si libererebbe il 50% dei posti degli ambulatori”, ha spiegato SalvatoreMinisola. In questo modo il clinico avrebbe più tempo per vedere nuovi pazienti e si riuscirebbe “aumentare il bacino di individuazione delle persone a rischio e quindi prevenire il rischio di fratture di femore”. Il medico di medicina generale dovrebbe essere quindi coinvolto in prima persona perché spesso, come precisato anche da GerardoMiceli Sopo, “loro si sentono esclusi non volontari da questa situazione”.
 
Per essere coinvolto però il medico di medicina generale deve essere anche informato. “Negli anni”, ha aggiunto Achille Caputi, “abbiamo assistito ad una dicotomia della formazione, quando invece noi abbiamo bisogno di integrazione”. Capito infatti, ha proseguito il professore, di parlare con medici di medicina generale che non conoscono i nuovi farmaci ed i loro meccanismi di azione. Da questo punto di vista è quindi difficile un reale scambio tra i gli specialisti e la medicina territoriale. “Per avere una integrazione tra ospedale e territorio, quindi, ci deve essere integrazione formativa”.
 
Marzia Caposio

11 ottobre 2021
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