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Il ruolo del management sarà determinante per il futuro del Ssn

10 GEN - Gentile Direttore,
giorni fa parlando dei 40 anni del nostro SSN un giovane giornalista di un importante quotidiano mi chiese: “ma prima com’era?”. Ecco, in quella domanda fatta da chi orienta l’opinione pubblica ho visto quanto l’assenza di memoria storica determini poi perdita di valore per qualcosa che ancora oggi molti ci invidiano: un sistema di assistenza universalistico, che assicura a tutti, indipendentemente da reddito, condizione lavorativa e sociale, la tutela del bene più prezioso, la nostra salute. Tanto per capirci, in Francia la Securitè Sociale garantisce il grosso delle prestazioni solo in regime di assistenza indiretta. Prima paghi e poi ottieni il rimborso.
 
In Germania le Krankenkassen non coprono l’intera popolazione e il sistema di protezione sanitaria varia a seconda del tipo di mutua. Nel Regno Unito l’NHS, il sistema sanitario pubblico al quale il nostro si è ispirato, è da anni soggetto a tagli così massicci da aver spinto due anni fa 200mila cittadini britannici a scendere in piazza a Londra per difendere quel bene prezioso.
 
Noi, possiamo dirlo con orgoglio, abbiamo reso sostenibile in questi anni il nostro SSN cambiando i modelli gestionali, ottimizzando l’uso delle risorse e del personale, pur carente. Nel festeggiare in questi mesi il nostro SSN dovremmo anche riconoscere il valore di quella svolta che fu nel ’92 l’aziendalizzazione del sistema. Se pur con diseguaglianze territoriali e tante difficoltà conserviamo oggi un impianto universalistico questo lo dobbiamo innanzitutto alle tante volte vituperate aziende sanitarie, alla loro autonomia gestionale che la pancia della politica e del mondo professionale, soprattutto in quella fase di passaggio dalle USL alle Aziende non digerì fino in fondo.
 

Quando a metà degli anni ’90 le Aziende iniziano a scaldare i motori la spesa sanitaria viaggia da tempo a un ritmo del più 15% l’anno e il deficit ereditato dalle vecchie USL vale un’intera legge finanziaria di lacrime e sangue. A chi assimila ancora oggi la nostra sanità a un carrozzone inefficiente e lottizzato dalla politica, magari sognando una virata verso le assicurazioni private, bisognerebbe ricordare che da allora i deficit sono stati azzerati senza discriminare la qualità dell’offerta, come indicano tutti gli indicatori di salute. Perché in venticinque anni l’aspettativa di vita è cresciuta di 10 anni e sempre più in buona condizione, così come gli esiti monitorati dal Piano nazionale dell’Agenas sono in costante miglioramento e, salvo eccezioni come per il numero ancora eccessivo di parti cesarei, collocano le nostre performance ai vertici d’Europa. Questo significa che il management ha tenuto la barra a dritta in tutti questi anni, imparando a fare sempre di più con meno. E se abbiamo garantito la sostenibilità del sistema lo si deve alla capacità di cambiare, adattarsi a nuovi bisogni e tecnologie, sapendo al contempo che non poteva esserci universalismo senza tenuta dei conti.
 
E’ stata una lunga marcia. Una storia di tre atti, come ho provato a raccontare nel libro “Il ruolo del management nel Servizio sanitario” edito da Egea. Il primo decennio che a partire dalla metà degli anni ’90 vede alla testa delle neo nate Aziende un uomo solo al comando. Direttori Generali molto autonomi ma con una minore coesione e una governance di sistema giocoforza più sfilacciata.

La seconda fase è quella della crisi finanziaria con la conseguente inaugurazione dei piani di rientro e dei commissari in molte Regioni. Bisogna fare i conti con il blocco del turn over del quale stiamo pagando il conto, e diminuiscono gli investimenti. Una stagione molto difficile che va dal 2006 al 2016, e che stiamo superando perché ciascuno, manager e professionisti, così come le stesse amministrazioni regionali, ha fatto la sua parte. Ma è anche una prova che ha finito per fare bene al sistema, perché il dover fare tanto con meno induce ad ingegnerizzarsi per fare in modo diverso, oltre che per ridurre sprechi e inefficienze.

E così sbarchiamo all’alba della terza fase, quella che stiamo vivendo. Il sistema oggi può e deve tornare ad investire, in primis sul capitale umano, e consolidare nuovi modelli organizzativi, con servizi più integrati tra loro e sempre più centrati sul paziente.
 
Non è più quest’ultimo a doversi spostare in cerca del professionista e della prestazione, ma stiamo entrando in una prospettiva di continuità e multidisciplinarietà degli interventi, con équipe trasversali e non di rado itineranti. Tra le cure primarie e l’ospedale va ampliandosi lo spazio per l’offerta di cure intermedie, con Rsa, assistenza domiciliare integrata, strutture riabilitative, ambulatori infermieristici e processi assistenziali nei quali le aziende operano in rete. Tutto questo mentre la medicina di precisione ci proietta in un futuro prossimo, in cui sarà possibile personalizzare sempre più i percorsi diagnostico-terapeutici, spingendo al massimo la gestione condivisa delle informazioni. Cambiamenti che hanno già imposto trasformazioni sul piano istituzionale con aziende sempre più grandi e un ruolo delle Regioni sempre più forte. Non nel senso di un’anacronistica invasione della politica nella gestione, bensì di una più forte programmazione e coesione degli interventi all’interno di sistemi sanitari meno frammentati. Che collocano le aziende all’interno di una vera holding di gruppo regionale.
 
In questo contesto il ruolo del management non può più limitarsi a razionalizzare la gestione, come è stato sinora in larga parte, ma deve essenzialmente governare il cambiamento, motivando il personale e valorizzando il middle management, recuperando visione strategica e dialogando con tutti gli stakeholder interni e esterni, all’interno di un unico disegno regionale. Le ASL, in particolare, stanno oramai rileggendo la loro mission, configurandosi come “Agenzie per la salute” capaci di offrire risposte a tutto tondo ai bisogni sanitari della popolazione. E per far questo devono innovare il loro modo stesso di operare e relazionarsi con i cittadini, essere più compatte e coese internamente, ma anche legittimate a operare in un quadro istituzionale più maturo e consapevole a livello regionale e nazionale. Non all’interno di un gioco a somma zero insomma, tra livelli territoriali e istituzionali differenti, ma di una governance complessiva che garantisca il coordinamento e la programmazione degli interventi.
 
In questa partita il ruolo del management a tutti i suoi livelli sarà determinante. Investire su nuovi profili di manager del cambiamento, come da par suo sta facendo FIASO, è una questione che non va confinata nell’ambito degli aspetti burocratici. E’ una scelta strategica per la sussistenza di quel sistema sanitario pubblico e universalistico del quale vogliamo continuare a festeggiare gli anni. E’ una necessità per un Paese che per crescere ha bisogno di manager pubblici responsabili, competenti e motivati, in grado di assumere decisioni e attuarle.
 
Angelo Tanese
Direttore Generale ASL Roma 1
Comitato promotore Convention Fiaso

10 gennaio 2019
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