Le Rems e la custodia dei pazienti. Fare ordine sulle competenze
02 MAG -
Gentile direttore,
scrivo sulla scia degli articoli recentemente pubblicati sull'argomento. Sono uno psichiatra che lavora sul territorio da circa 25 anni e quindi con una certa esperienza clinica fatta sul campo. Siamo tutti ormai d'accordo che il problema del "folle autore di reato" debba essere trattato nei servizi con una progettualità che non può che essere in sincronia con quella della normativa giudiziaria. A mio giudizio però il problema va inserito all'interno della difficoltà più generale di curare le persone affette da gravi patologie e/o non responsive ai trattamenti e/ non compilanti agli stessi.
In questa ottica (e faccio riferimento soprattutto all'istituto del TSO) gli operatori spesso non hanno gli strumenti normativi adeguati a far fronte a tali gravi situazioni. Parliamo infatti di servizi (tra l'altro con risorse calanti) strutturati e pensati ormai oltre trent'anni fa soprattutto sulla cura della psicosi con la convinzione che non istituzionalizzare fosse già di per se terapeutico o comunque permettesse di evitare la cronicizzazione e l'aggravarsi dei sintomi.
Dopo tanti anni di deistituzionalizzazione oggi sappiamo ampiamente che non è così. I gravi caratteriali, gli psicopatici e le psicosi non responsive spesso sfuggono ad una reale possibilità di cura, anche perché la vera esplosione epidemiologica dei disturbi di personalità si ha a partire dagli anni ottanta sulla scia dell'introduzione del famoso asse secondo del DSM III, e quindi dopo l'entrata in vigore della legge 180 nel 1978 su cui i servizi sono di fatto stati modellati.
Non a caso, anche per caratteristiche intrinseche a tali disturbi, le suddette patologie costituiscono i casi che più facilmente arrivano a commettere reato. È' triste affermare che a volte gli operatori paradossalmente finiscono per augurarsi che questo avvenga perché grazie alla "coercizione" giudiziaria conseguenza del reato si possa riuscire a curare queste persone, soprattutto dopo molti, reiterati e inutili TSO. Quindi il problema è più complesso e andrebbe affrontato magari rivedendo appunto anche la normativa dei trattamenti obbligatori, cosa molte volte tentata ma mai attuata.
Anche perché, con la tendenza degli ultimi anni della giurisdizione italiana (ma non europea), con la famigerata posizione di garanzia (espressione di un neopaternalismo ormai superato dalla moderna medicina) ormai lo psichiatra è responsabile di tutto quello che il paziente commette, solo in quanto paziente e perché in carico al DSM. Ne seguono ormai svariate strategie difensive da parte degli operatori su cui è umiliante dilungarsi e che spingono sempre più a non volersi occupare dei pazienti più difficili venendo meno a quel ruolo assertivo cui i servizi dovrebbero essere vincolati.
Certo il controllo sociale è una delega che da sempre appartiene alla psichiatria. Bisogna però mettersi d'accordo nel definire il confine, non sempre facile, tra controllo da una parte e custodia dall'altra evitando di confonderle. Sono infatti due dimensioni a volte vicine ma diverse e, soprattutto la seconda, affatto sanitaria.
Di fatto non si può non constatare che nello spettro dei vari comportamenti umani esiste anche quello violento che può portare a commettere reati. È in questo caso che subentra il mandato sociale alla custodia. Così può accadere anche per il malato mentale, con la differenza che in questo caso subentra anche il diritto/dovere di cura, che non può non andare di pari passo però con l'intervento custodialistico, come richiesto dalla normativa su mandato sociale, proprio come per il controllo.
Con la normativa attuale (soprattutto dopo l'abolizione degli OPG) non deve costituire un'eresia ammettere la necessità della custodia per un paziente in una fase del percorso terapeutico che lo riguarda, anzi a mio giudizio costituisce un elemento che, rilanciando una nuova e diversa progettualità, bisogna saper mettere frutto per un successivo auspicabile reinserimento socio-riabilitativo.
L'aspetto custodialistico, laddove necessario e peri tempi in cui è indispensabile per il singolo paziente, va però esercitato da chi ne ha il ruolo istituzionale per attuarlo e non dalle figure sanitarie. A questo proposito può costituire da modello quello che avviene per l'esecuzione dei TSO: le modalità di esecuzione di quest'ultimo (dopo anni di dibattiti e controversie tra chi deve fare cosa e così via) ha trovato una sua discreta e stabile definizione dei ruoli e delle rispettive competenze tra sanitari e forza pubblica.
Questo può costituire se non altro un elemento di chiarezza dei rispettivi ruoli e dei compiti delle singole figure professionali soprattutto nei confronti del paziente, cosa di fatto determinante per l'attuazione di progetti più propriamente socio-riabilitativi da parte degli operatori sanitari.
Dr. Nicola Casarella
Medico psichiatra CSM di Bracciano
02 maggio 2016
© Riproduzione riservata
Altri articoli in QS Lazio