Una “diagnosi fuori tempo” va risarcita anche per l’impossibilità del paziente di esprimere le sue “ultime scelte”. Cassazione allarga il campo dei danni risarcibili
Chiamate in casua nella sentenza 10424/2019 della Cassazione anche la legge 38/2010 sulle cure palliative e la 2019/2017 sulle DAT, le cui scelte e i cui effetti sarebbero stati preclusi dall'errore diagnostico. Sentenza rinviata alla Corte d'Appello per un nuovo giudizio. LA SENTENZA.
17 APR - Non è solo una questione di mancata diagnosi, ma anche di impedimento al paziente di “operare le sue scelte ultime”. E di mancato rispetto dei presupposti contenuti anche nelle leggi sul dolore (38/2010) e sulle DAT (2019/2017).
La terza Sezione civile della Cassazione (sentenza n. 10424), ha affermato che la mancata diagnosi in tempo di una malattia mortale priva il paziente del diritto a operare le sue "scelte ultime", col conseguente diritto di ottenere il risarcimento del danno consistente nella “perdita di un ventaglio di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima”.
Il fatto
Richiesta di risarcimento dei danni, "iure proprio" e "iure hereditatis", conseguenti al decesso di una paziente causato da un errore diagnostico.
La paziente era stata sottoposta a un intervento, eseguito in laparotomia, di asportazione bilaterale delle ovaie e le veniva comunicato l'esito dell'esame istologico che evidenziava l'asportazione di fibroma benigno.
Colpita mesi dopo da nuovi dolori nella zona pelvica, la donna si ricoverava presso un’azienda ospedaliera in un’altra Regione dove, dopo una nuova valutazione dei vetrini del precedente esame istologico, le veniva diagnosticato un sarcoma del tessuto muscolare liscio che ne provocava successivamente la morte.
Ritenendo che l'errore diagnostico che aveva impedito una diagnosi precoce del tumore, avesse privato la donna della possibilità di rimediare a tale patologia e di evitare il decesso, ovvero in ogni caso avesse privato la donna di "chance" di maggiore e migliore sopravvivenza, incidendo comunque sulla qualità della sua vita residua, il marito e i figli della paziente hanno portato in giudizio l’Asl che a sua volta a chiamato in causa il centro diagnostico a cui era stato affidato l’esame istologico il quale ha identificato un medico come esecutore responsabile dell’esame.
La domanda di risarcimento, anche dopo l’intervento del CTU, era stata respinta perché non c’era prova che la ritardata diagnosi del carcinoma avesse compromesso le chance di guarigione della paziente o di maggiore (e migliore) sopravvivenza (la parte lesionata infatti era stata comunque rimossa). I congiunti allora hanno ricorso in Cassazione.
La sentenza
Secondo la Cassazione “l'ordinamento giuridico non è affatto indifferente all'esigenza dell'essere umano di ‘entrare nella morte ad occhi aperti’”, afferma nella sentenza citando “una delle voci più alte della letteratura del ‘900” e per questo ha affermato che la mancata diagnosi in tempo di una malattia mortale priva il paziente del diritto a operare le sue "scelte ultime", col conseguente diritto di ottenere il risarcimento del danno consistente nella “perdita di un ventaglio di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima”.
Per la Cassazione non si tratta solo della scelta se procedere o meno con un piano terapeutico, oppure se optare per cure palliative, ma proprio del fatto di “vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico in attesa della fine”, distinguendo questo caso rispetto alla "perdita di chance" legata a malpractice sanitaria.
La Cassazione quindi allarga il campo dei danni risarcibili, richiamando anche la legge 38/2010, sulle cure palliative, e la legge 291/2017, in materia di Dat (disposizioni anticipate di trattamento).
“L'autodeterminazione del soggetto chiamato alla ‘più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine’ – si legge nella sentenza - non è priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all'opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione”.
“Anche la sofferenza e il dolore – prosegue la sentenza - là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un'inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose”.
Sostengono o i giudici della Cassazione che “rileva innanzitutto la legge 15 marzo 2010, n, 38 (Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore), recante un corpus di norme aventi come scopo, tra l'altro, anche - art. 1, comma 3, lett. b) - la ‘tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine’.
Non priva di rilievo è, poi, la stessa legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la quale - all'art. 4 - riconosce ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, ‘in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte’, la possibilità sia di ‘esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari’, sia di nominare, al medesimo scopo, un fiduciario, stabilendo, nel contempo, che tali direttive anticipate sono ‘rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento’”.
Secondo la Cassazione quindi l'autodeterminazione del soggetto chiamato alla "più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine" non è, dunque, priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, o, all'opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche l’accettazione della propria condizione, perché "anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un'inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose".
Quindi la Cassazione “accoglie il ricorso principale, per quanto di ragione, e dichiara inammissibili i ricorsi incidentali proposti” dall'Asl e dal Centro diagnostico, “cassando, per l'effetto, la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello in diversa composizione per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio”.
17 aprile 2019
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lavoro e Professioni