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Muore di aneurisma dopo che il medico di famiglia si era rifiutato di visitarlo. Ma per la Corte di Cassazione non c’è nesso causale 


Il medico aveva rifiutato ripetutamente di visitare il paziente convinto che avesse il mal di testa. La Cassazione lo ha comunque assolto perché la tempestiva visita domiciliare non avrebbe assicurato la sopravvivenza del paziente. Per il Consulente Tecnico d'Ufficio, infatti, le probabilità di diagnosticare l'aneurisma sarebbero state non più del 60% e, anche se diagnosticato, il trattamento chirurgico per rimuoverlo sarebbe stato difficoltoso, se non impossibile. Il decesso, di conseguenza, non è imputabile al comportamento del medico. L'ORDINANZA.

27 AGO - Non ha colpa il medico di famiglia se non ha effettuato una visita domiciliare a un paziente, poi deceduto, dalla quale non avrebbe potuto comunque dedurre le cause del decesso. A confermarlo, dopo la pronuncia, della Corte d’Appello, è la Cassazione con l'Ordinanza 21008/2018.

Il caso riguarda un medico di famiglia che si era rifiutato di visitare un paziente trentenne che accusava forte mal di testa, dolori al collo e fotofobia, nonostante le ripetute richieste della madre del ragazzo. Per il medico il quadro sintomatologico era quello di un comune mal di testa e, certificata la ricorrenza di una sindrome grippale, aveva prescritto al paziente inizialmente una terapia a base di aspirina e, successivamente, l'assunzione di novalgina. A distanza di qualche giorno, però, l'uomo era deceduto per la rottura di un piccolo aneurisma subaracnoideo, come accertato dall'esame autoptico.

Portato davanti ai giudici, il medico era stato condannato dal Tribunale penale per rifiuto di atti d'ufficio (art. 328 c.p.), in quanto era stato accertato il reiterato rifiuto di visita domiciliare, ma assolto, con formula piena, dal reato di omicidio colposo, di cui all'art. 589 c.p..

Anche la Corte penale di Appello, cui si erano rivolti il Pubblico ministero, l'imputato e la parte civile, dichiarava di non doversi procedere nei confronti del medico per estinzione del reato di rifiuto di atti d'ufficio per intervenuta prescrizione e confermava le restanti conclusioni. Per quanto riguarda il ricorso della parte civile, ai soli effetti dell'art. 576 c.p. e con riferimento alla conferma della sentenza di assoluzione in primo grado dal reato di omicidio colposo, la Corte di Cassazione penale, con sentenza n. 25992/13, ha dichiarato la nullità della sentenza impugnata per la nullità della perizia su cui essa si era fondata, e rinviato, ex art. 622 c.p.p., al giudice civile competente in grado di appello la valutazione dell'eventuale ricorrenza di responsabilità dell'imputato nei confronti della parte civile.

La Corte di Appello ha perl rigettato il ricorso che veniva così proposto in Cassazione.
 
Nella sua sentenza la Cassazione ha richiamato anzitutto la relazione della CTU (Consulente Tecnico d'Ufficio) ed evidenziato:

a) il decesso era stato causato da una ripresa del sanguinamento il giorno del decesso;

b) l'aneurisma era di piccole dimensioni e non trattabile;

c) anche se il medico avesse tempestivamente eseguito la visita domiciliare, sulla scorta del criterio del più probabile che non, non avrebbe indirizzato immediatamente a cure specialistiche il paziente, a fronte di un quadro sintomatologico non immediatamente suggestivo per ESA e facilmente interpretabile per manifestazione di altra tipologia;

d) quand'anche ciò fosse avvenuto, l'esame TC avrebbe forse consentito di apprezzare anche il minimo sanguinamento in atto e avviato il paziente a un esame di angio TC che solo nel 60% dei casi avrebbe individuato la causa del sanguinamento;

e) pur individuato l'aneurisma sanguinante, non sarebbe stato possibile intervenire sull'origine del sanguinamento.

 In pratica, per i giudici, la visita domiciliare tempestiva del medico avrebbe aumentato le probabilità di diagnosticare l'aneurisma (60% di possibilità). Ma una volta individuato, secondo la CTU, il trattamento chirurgico per rimuoverlo sarebbe stato difficoltoso, se non impossibile.

Inoltre per la Corte territoriale, data la mai contestata percentuale del 60% di possibilità di individuazione dell'aneurisma - per il restante 40% l'aneurisma non avrebbe potuto essere individuato neppure in caso di corretto comportamento da parte del medico i base - il tasso di percentuale di sopravvivenza del paziente era complessivamente del 42% (cioè il 70% del residuo 60%) contro il 58% di probabilità di esito infausto. Sulla scorta del criterio del più probabile che non, ritenne, quindi, esclusa l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del medico di base e il decesso del paziente.

Secondo la Cassazione “il ragionamento della Vorte di merito non merita censure: ha applicato la regola probatoria che governa la ricostruzione del nesso causale nel processo civile, la quale - secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità - è quella della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non”.

L’ordinanza prosegue spiegando che “in materia di responsabilità sanitaria, atteso che la consulenza tecnica è di norma consulenza percipiente a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche e che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza, offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale, ne consegue che, dato che la consulenza ha concluso per la esclusione del nesso causale ragionando in termini ‘del più probabile (che non)’, il giudice ha applicato correttamente il criterio della regolarità causale e della certezza probabilistica là dove ha affermato che la condotta del medico di base non è stata la causa del decesso del paziente”.

Quindi secondo la Cassazione “non è possibile reputare che l'inadempimento del medico di base, consistito nelle omesse visite domiciliari, abbia causato la morte del paziente, risultando, al contrario, ‘più probabile che non’ che la rottura dell'aneurisma ne avrebbe comunque determinato il decesso. In definitiva, non era possibile affermare, in termini di probabilità logica, che in caso di visita tempestiva il paziente avrebbe avuto ragionevoli probabilità di guarigione”.

La Cassazione prosegue sottolineando che Il giudice ha, dunque, compiuto il giudizio controfattuale, ha ritenuto che l'inadempimento del sanitario non è stato causa del decesso perché “anche, eliminato mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti — sulla base di una successione regolare conforme ad una legge statistica — l'evento si sarebbe nel 58% dei casi comunque verificato”.

“Il giudice – spiega l’ordinanza -  perviene a determinare la percentuale del 58% di possibilità di esito infausto sulla base dell'adeguamento della probabilità statistica al caso concreto: tenuto conto delle dimensioni dell'aneurisma, non bastava astrattamente prevedere che un tempestivo ricovero ospedaliero, onde effettuare approfonditi esami diagnostici, avrebbe permesso con probabilità pari al 60% di individuarne la presenza, ma occorreva altresì tener conto della trattabilità dello stesso con esito fausto, attestantesi sul 70% di probabilità. Il decorso causale ipotetico non poteva non essere valutato tenendo conto delle specificità del caso concreto. La concretizzazione del giudizio di causalità implicava che si tenesse conto anche dell'inferenza negativa di ulteriori elementi - la percentuale di insuccesso di un intervento chirurgico o terapeutico pur tempestivo - incidente sulla diagnosticabilità dell'aneurisma e quindi sulla complessiva efficacia impeditiva della visita domiciliare astrattamente considerata”.

E la Cassazione entra nel merito anche della prescrizione del medico di base: “Quanto alla censura di omesso esame dell'incidenza causale della prescrizione dell'aspirina, controindicata per l'effetto fluidificante, e della giovane età e delle condizioni di salute della vittima prima del decesso, oltre a non averne dimostrato la decisività, il ricorrente non ha dato prova che avessero costituito oggetto di discussione tra le parti. … Il ricorrente non può limitarsi a denunciare l'omesso esame di elementi decisivi, ma anche il ‘come’ e il ‘quando’ essi siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti e la loro decisività, cioè la loro attitudine a fornire un contributo decisivo nell'accertamento della verità storica dei fatti di causa”.

Quindi per la Cassazione “il ricorso va dichiarato inammissibile”.

27 agosto 2018
© Riproduzione riservata

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