Il chirurgo primo operatore risponde anche dell’anestesista. Nuovo o vecchio orientamento della Corte di cassazione?
di Luca Benci
La Corte ha rilevato che “il lavoro in equipe vede la istituzionale cooperazione di diversi soggetti, spesso portatori di distinte competenze”. Ma aggiunge che “tale attività deve essere integrata e coordinata”. E soprattutto specifica (per la prima volta) che essa “va sottratta all'anarchismo” e “per questo assume rilievo il ruolo di guida del capo del gruppo di lavoro” che non può disinteressarsi del tutto dell'attività degli altri terapeuti”. LA SENTENZA
06 AGO - La Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezione IV , sentenza 28 luglio 2015, n. 33329) interviene sull’annosa problematica della responsabilità di equipe e del ruolo del c.d. “capo-equipe” figura che, all’interno dell’organizzazione della sala operatoria, coincide, generalmente, con il primo operatore chirurgo.
Il fatto ha riempito le pagine dei giornali all’epoca ed è inerente alla morte di una ragazza di sedici anni all’ospedale di Vibo Valentia ricoverata per un ascesso peritonsillare con edema. Trattata inizialmente con terapia antibiotica e cortisonici e presa in cura da chirurghi otorinolaringoiatrici. Venne anche visitata da un medico anestesista. Per l’ingravescenza della malattia venne portata in sala operatoria per l’esecuzione di una tracheotomia. L’anestesista tentò due volte di dar corso all’anestesia generale con somministrazione di curaro e relativa intubazione. “L’effetto miorilassante del curaro determinò la paralisi dei muscoli respiratori con conseguente totale occlusione delle vie respiratorie. Sopraggiunse anossia con desaturazione”. In questo contesto è stata tentata una tracheotomia d’urgenza senza esito. “il bisturi incise pure l’esofago e lese alcuni vasi”. Morte sopraggiunta per arresto cardiocircolatoria per asfissia indotta farmacologicamente”. La vicenda, quindi, parte da un grave errore del medico-anestesista.
Il caso presenta delle complessità evidenti di carattere tecnico-professionale e anche giuridiche (soprattutto sul nesso causale) che non affronteremo in questa sede e ha coinvolto numerosi medici dell’equipe mono e interprofessionale.
Ci interessa invece l’aspetto della responsabilità di equipe che viene ripreso dalla Suprema Corte.
La suddivisione della responsabilità del lavoro di equipe viene, da ormai diversi decenni, affrontata attraverso la concettualizzazione del “principio di affidamento”. In equipe, cioè, si vuole evitare che l’ordinario principio della responsabilità professionale, costruito sul modello del singolo soggetto che agisce isolatamente, porti a conclusioni paradossali. Il principio dell’affidamento è stato proprio teorizzato per partire dal presupposto che ogni membro dell’equipe operatoria (e non solo operatoria) conta nel “corretto adempimento degli altri soggetti”, tutti ovviamente tenuti all’osservanza delle regole di condotta corrette. In pratica un chirurgo si fida del lavoro dell’anestesista, dell’infermiere, del perfusionista e viceversa.
Come ha da tempo evidenziato la migliore dottrina giuridica “ogni partecipante è quindi “responsabile solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e di perizia inerenti ai compiti che sono specificamente affidati, perché solo in questa maniera ciascun membro del gruppo è lasciato libero, nell’interesse del paziente, di adempiere in modo soddisfacente alle proprie mansioni”.
Da questo possiamo dedurre che la responsabilità della medicina d’équipe è sostanzialmente retta da tre principi fondamentali, di cui il principio dell’affidamento si pone come corollario. Ricordiamo infatti il principio della divisione degli obblighi tra i componenti dell’équipe e il principio dell’autoresponsabilità secondo il quale ciascun componente dell’équipe risponde delle inosservanze attinenti alla sua competenza specifica.
I limiti individuati nel principio dell’affidamento sono due:
- quando un professionista in rapporto alle circostanze concrete può avere la previsione o la prevedibilità e la evitabilità della pericolosità del comportamento scorretto altrui, dovendo in tal caso adottare le misure cautelari per ovviare ai rischi dell’altrui scorrettezza;
- dallo specifico obbligo del soggetto, per la sua particolare posizione gerarchica di prevenire o correggere l’altrui scorretto agire.
Il principio dell’affidamento all’interno dell’equipe trova quindi il limite dell’evidente comportamento scorretto di altri membri dell’equipe: in questo caso vi è l’obbligo di intervenire e correggere l’errore o mettere in atto comportamenti tesi alla riparazione dell’errore.
In caso di medici di diversa specialità – nel caso di specie otorino e anestesista – l’evoluzione della responsabilità e delle competenze si è stratificata nel corso dei decenni.
Inizialmente si riconosceva, sempre, al capo equipe primo operatore il ruolo di dominus assoluto dell’equipe e il chirurgo rispondeva sempre, proprio in qualità di capo equipe, dell’operato anche dell’anestesista. La situazione non era però bilaterale e di conseguenza l’anestesista non rispondeva del fatto del chirurgo (vedi Cass. penale, sezione IV, sentenza 30 ottobre 1984).
Nel corso degli anni la giurisprudenza ha affrancato la responsabilità del chirurgo rispetto a quella dell’anestesista sulla base del principio dell’affidamento e dell’essere, l’anestesista, titolare di un sapere specialistico non appartenente al chirurgo.
L’affievolimento dei poteri del capo equipe nella giurisprudenza più recente appariva evidente.
Nella sentenza che stiamo commentando invece la Corte di cassazione opera delle argomentazioni che sembrano andare in una nuova (o antica) direzione.
Osserva oggi la Cassazione che “Il lavoro in equipe vede la istituzionale cooperazione di diversi soggetti, spesso portatori di distinte competenze” ponendosi perfettamente in linea con tutta la giurisprudenza propria e di merito precedente. Aggiunge però che “tale attività deve essere integrata e coordinata, va sottratta all'anarchismo”. Per la prima volta, a nostra memoria, la Suprema Corte utilizza questo termine riferito al lavoro di equipe e ne trae le conclusioni: “per questo assume rilievo il ruolo di guida del capo del gruppo di lavoro”. Il quale “non può disinteressarsi del tutto dell'attività degli altri terapeuti, ma deve al contrario dirigerla, coordinarla”. Di conseguenza “nei suoi confronti non opera, in linea di massima, il principio di affidamento”. Poi pone dei “paletti” proprio esemplificando sul rapporto chirurgo-anestesista: “l'anestesista rianimatore è portatore dei conoscenze specialistiche ed assume la connessa responsabilità in relazione alle fasi di qualche qualificata complessità nell'ambito dell'atto operatorio. Diverso discorso va fatto, invece, per ciò che attiene a scelte e determinazioni che rientrano nel comune sapere di un accorto terapeuta; nonché per quanto riguarda ambiti interdisciplinari, nei quali è coinvolta la concorrente competenza di diverse figure. In tali situazioni riemerge il ruolo di guida e responsabilità del capo equipe. Si vuoi dire che quando l'errore è riconoscibile perché banale o perché coinvolge la sfera di conoscenza del capo equipe, questi non può esimersi dal dirigere la comune azione ed imporre la soluzione più appropriata, al fine di sottrarre l'atto terapeutico al già paventato anarchismo. Egli dovrà dunque avvalersi dell'autorità connessa al ruolo istituzionale affidatogli”.
Quindi quando l’anestesista opera scelte connesse al suo ruolo di medico specialista della propria branca risponde personalmente delle scelte operate. Quando invece propone scelte il cui sapere rientra in un contesto di comune cognizione di altri medici riemerge – dal passato – il ruolo di capo-equipe del chirurgo primo operatore il quale a “fronte del rifiuto di attenersi alle direttive impartite” dall’anestesista “ben potrà sospendere l’attività” o, utilizzando le parole dei giudici di merito, allontanare l’anestesista.
Nel caso di specie a fronte di decisioni che interferivano con le scelte chirurgiche di controllo dell’edema, specificano i giudici romani, spettava al chirurgo otorino la “ponderazione delle implicazioni dell’anestesia curarica” con la conseguenza di “impedire l’anestesia”.
In conclusione dobbiamo quindi notare che la Cassazione non torna agli antichi orientamenti di attribuzione al capo equipe della responsabilità di tutto ciò che veniva posto in essere in sala operatoria (anche non posto in essere da lui personalmente), ma ha soltanto riaffermato, esaminando il caso concreto, ciò che la dottrina giuridica – la teorizzazione della responsabilità di equipe e del principio di affidamento sono costruzioni dottrinarie e giurisprudenziali – ha da sempre sostenuto e che abbiamo sintetizzato nei punti sub a) e sub b).
Il principio dell’affidamento si riespande nelle attività in cui la competenza del medico anestesista esprime il proprio specifico ed esclusivo sapere disciplinare.
La novità di questa sentenza è sottintesa nel lessico della Cassazione laddove enfatizza il ruolo del capo equipe per sottrarre “all’anarchismo” proprio il lavoro di squadra laddove per decenni si è costruita la responsabilità di equipe proprio in base alla suddivisione dei compiti e delle responsabilità e alla non interferenza nel lavoro altrui, pur con i limiti da sempre precisati.
Il primo operatore ne esce comunque onerato di obblighi di sorveglianza e di poteri di direzione nei confronti dell’anestesista in quanto si riconosce che il capo equipe è comunque il chirurgo.
Luca Benci
Giurista
06 agosto 2015
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