La violenza sugli operatori sanitari. Stakeholders a confronto. “Episodi in aumento, la politica intervenga per aumentare la prevenzione e per garantire tutele efficaci”
di Gennaro Barbieri
Spesso le aggressioni non vengono denunciate, perché ormai considerate parte integrante del lavoro e per timore che l’episodio sia giudicato come indicatore di scarsa performance. E le conseguenze sono enormi, sia sotto il profilo professionale che privato. Mario Falconi, presidente del Tribunale dei diritti e dei doveri del medico. “Istituire un osservatorio ad hoc in ogni regione”
09 MAG - La violenza sugli operatori sanitari è un fenomeno che sta registrando una crescita preoccupante, ma viene ancora notevolmente sottostimato e sottovalutato in quanto le vittime tendono a non denunciare gli episodi. Le conseguenze delle aggressioni subite sono però consistenti e attengono a diverse sfera della vita privata e professionale. Dinamiche che sono state analizzate e discusse nel corso del convegno
‘La violenza sugli operatori sanitari’, promosso dal Tribunale dei diritti e dei doveri del medico, con il supporto del centro studi Anaao Lazio, e svoltosi presso l’Ospedale San Giovanni di Roma.
"La violenza sugli operatori sanitari, sia di tipo fisico che verbale, sta evidenziando un’imponente crescita strutturale - è grido d'allarme lanciato da
Mario Falconi, presidente del Tribunale dei diritti e dei doveri del medico (TDMe) - Purtroppo le aziende non dispongono di strutture ad hoc per occuparsi della materia e per questo molti episodi rimangono in un cono d’ombra. Medici e infermieri finiscono quindi per sentirsi abbandonati. Si tratta di casi dovuti in gran parte alle mancanze del territorio che costringono i cittadini, sempre più esasperati, a recarsi in ospedale per ogni genere di accertamento. Le soluzioni da mettere in campo per modificare lo status quo non mancherebbero. Sarebbe opportuno istituire un osservatorio sul tema in ogni regione e creare delle unità specifiche di supporto psicologico per le numerose vittime. Purtroppo le aziende ancora non si stanno muovendo in questa direzione. Auspico, inoltre, un atteggiamento diverso da parte della politica, sempre pronta a rilasciare dichiarazioni a supporto dei cittadini soggetti a casi di malasanità, ma assente quando si tratta di esprimere solidarietà agli operatori che hanno subito aggressioni”.
Come punto di partenza dei lavori è stata presentata
un’indagine di Marina Cannavò, dirigente medico psichiatra dell’Asl Rm/B. Lo studio ha interessato 58 operatori del dipartimento di emergenza: tutti, tranne 7, hanno accettato di rispondere ai questionari somministrati. Il primo elemento emerso è che negli ultimi 5 anni tutti gli intervistati hanno assistito e/o subito almeno una volta aggressioni fisiche e verbali sul posto di lavoro da parte di pazienti e/o familiari. Tuttavia il 37% non ha mai segnalato l’evento avverso, il 34% informa solo verbalmente i superiori della struttura senza fare denuncia alla Autorità di Pubblica Sicurezza. Soltanto il 27% compie quest’atto.
“E’ ormai sempre più diffusa una vera e propria assuefazione alle aggressioni – ha sottolineato
Cannavò – Soprattutto per quanto riguarda quelle verbali, che vengono considerate parte integrante del lavoro. E’ radicata anche la percezione che sia inutile segnalare, in quanto l’abuso non viene preso seriamente in considerazione dal management. Vi è poi il timore che l’episodio sia giudicato come indicatore di una scarsa performance lavorativa o di una certa negligenza. Nel complesso mancano vere politiche istituzionali di prevenzione della violenza e quindi è carente riconoscimento degli annessi fattori di rischio”.
L’indagine evidenzia poi le conseguenze delle aggressioni che si manifestano nel 91% degli operatori intervistati. Emergono soprattutto reazioni emotive di rabbia, irritazione, umiliazione, paura e impotenza. Il 26% ha inoltre riferito di una riduzione della performance professionale a causa di demotivazione. E il 28% ha raccontato di soffrire di disturbi psichiatrici importanti, in particolare di ansia e depressivi.
“La violenza può presentarsi anche sotto alte forme – ha spiegato
Donato Antonellis, presidente del centro studi dell’Anaao Lazio – C’è quella mediatica che consiste in un vero e proprio linciaggio ai danno degli operatori poiché gli organi di informazione tendono a riportare soltanto casi di malasanità. Ma anche quella politica che deriva da pressioni cui si è soggetti dai propri superiori e quella giudiziaria, poiché dopo un procedimento a carico nessuno è più lo stesso medico o la stessa persona. Dopo ogni giudizio il professionista, a prescindere dall’esito, sarà comunque perdente perché continuerà a portarne il peso per tutto il resto dell’esistenza”.
Per invertire la rotta il primo ingrediente “è rafforzare la prevenzione, individuando le principali aree di rischio in cui i volumi di attività sono tali da trasformarsi in terreno fertile per le aggressioni – ha suggerito
Cinzia Barletta, Past President Fimeuc – Altro fattore scatenante risiede nella mancanza di comunicazione e nella difficoltà a costruire meccanismi empatici. Bisognerebbe iniziare a formare il personale affinché sia preparato a cogliere segnali di allarme ma anche a leggere la comunicazione non verbale. Allo stesso tempo le direzioni strategiche delle strutture devono promuovere politiche di tolleranza zero e istituire gruppi di lavoro compositi e multidisciplinari”. Esempi concreti sembrano già esistere. “Gli steward di Pronto Soccorso, presenti in Veneto o presso il Pronto Soccorso del Sant’Eugenio, rappresentano collegamenti sottili ma non invadenti e contribuiscono a umanizzare anche le situazioni più complesse”.
Il fenomeno presenta articolate implicazioni anche sotto il profilo giuridico e deontologico. “Il Consiglio dell’Ordine di appartenenza dovrebbe vigilare in maniera oculata, soprattutto perché spesso le aggressioni di tipo verbale provengono da colleghi – ha sottolineato l’avvocato
Riccardo Nodari – Servono quindi sanzioni più stringenti. Si stanno affermando messaggi culturali che inducono la popolazione a coltivare una rabbia crescente verso gli operatori. Ci sono vere e proprie organizzazioni che lucrano su eventuali casi di malasanità, fomentando la cultura del sospetto e minando così il rapporto di fiducia con i pazienti”. La violenza può assumere anche forme meno conosciute, “come quella di tipo economico: mi riferisco ai casi in cui l’operatore, anche se assicurato, si trova comunque a dover anticipare le spese legali”.
Non mancano poi le responsabilità da parte del legislatore. “Basti pensare a quante cause che procedono a rilento giacciono nei tribunali – ha evidenziato
Guido Coen Tirelli, segretario regionale Anaao Assomed Lazio – Non c’è infatti la giusta considerazione per problematiche che potrebbero essere risolte più efficacemente in altre sedi”. Non minori colpe sono da attribuire al management “dato che direzioni aziendali e sanitarie sembrano incapaci di fornire risposte agli operatori e ai cittadini, finendo così per alimentare il fenomeno. La riduzione del personale e turni massacranti inficiano la qualità delle prestazioni, facendo ricadere le difficoltà delle aziende sulle spalle dei lavoratori”.
La violenza è anche diretta emanazione di dinamiche strutturali di politica sanitaria. “Gli ospedali sono affollati con cittadini e operatori che si trovano ad annaspare nella confusione poiché il territorio non riesce ancora a garantire una vera alternativa – ha ragionato
Annalisa Silvestro, membro della Commissione di Inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro – In questo contesto si percepisce un clima di tensione e gli eventi avversi sono sempre più spesso fattori stress correlati, che producono insicurezza e abbassano la soglia di attenzione. La politica ha quindi il dovere di assumersi la responsabilità di rendere più conosciute queste dinamiche che non sono percepite in proporzione alla loro effettiva entità”.
Gli operatori sono quindi un costante bersaglio mediatico, “all’interno di un circolo vizioso che viene amplificato anche da altre categorie, su tutte la magistratura con sentenze discutibili che frantumano ogni certezza – ha ricordato il giornalista scientifico
Luciano Onder – I medici condannati segnano una crescita esponenziale, fomentando così un linciaggio assolutamente immeritato per la nostra sanità che è invece l’unica grande organizzazione del Paese che regge il confronto a livelli di eccellenza con i sistemi degli altri Stati. Tutto questo avviene per una carenza strutturale di cultura scientifica che coinvolge pienamente giornalisti e giudici”.
Il risultato di queste componenti “è un clima generale di delegittimazione che costituisce l’humus in cui germogliano atteggiamenti violenti contro chi lavora in sanità – ha spiegato
Giuseppe Saieva, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rieti – E’, al contrario, normale e fisiologico che possa emergere un minimo margine di rischio per chi svolge una professione così delicata. Sussiste anche una certa benevolenza della magistratura che considera aprioristicamente il paziente la parte debole a scapito del medico quando, invece, i termini possono anche invertirsi. La parte offesa possiede, probabilmente, troppi poteri. In questo scenario un contributo consistente proviene dalla figura del medico legale che, sovente, riscontra responsabilità anche dove sono inesistenti”.
Nel complesso sono in atto modifiche radicali anche di segno culturale. “L’ospedale non è più percepito come un luogo sacro e il medico non è più considerato come una figura unica – ha ragionato
Cesare Fassari, direttore di Quotidiano Sanità – La popolazione ha acquisito strumenti nuovi e cerca di effettuare autodiagnosi tramite il web che rappresenta un’enorme miniera di informazioni dove però non c’è la garanzia dell’attendibilità delle fonti. Cambia quindi inevitabilmente la modalità di approccio dei cittadini con gli operatori. Tutto ciò si inserisce all’interno di un clima di insicurezza e violenza montanti che non riguardano soltanto gli ospedali ma, purtroppo, tutti i livelli della nostra società”.
Gennaro Barbieri
09 maggio 2015
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