La Medicina Interna è il pilastro portante degli oltre 1.100 ospedali italiani, ma è una specialità che necessita di una profonda riorganizzazione. A cominciare dalla revisione del DM Donat Cattin 109/88, inerente alla determinazione degli standard del personale ospedaliero e proseguendo con i percorsi, perché l’affollamento dei pronto soccorso è solo un marker di un sistema disfunzionale, globalmente intasato. Il simposio congiunto SIMI-FADOI, tenutosi durante il 125° congresso della Società Italiana di Medicina Interna (Rimini, 11-13 ottobre 2024), è stata l’occasione per rafforzare l’alleanza tra le due società scientifiche e per cominciare a costruire una roadmap per la riorganizzazione della medicina interna in Italia.
“Dobbiamo cominciare col fare lo sforzo di far conoscere meglio chi sono gli internisti – esordisce Francesco Dentali, presidente FADOI – gli specialisti che lavorano in più di 1.100 medicine in Italia, che gestiscono ogni anno più di un milione di ricoveri, un sesto di tutti i ricoveri ospedalieri e la metà di quelli non in area chirurgica, pediatrica, ostetrica. Numeri enormi, destinati ad aumentare perché i nostri pazienti diventano sempre più comorbidi, anziani e fragili. L’internista si occupa di pazienti con plurime patologie, più fragili degli altri e a diverse intensità di cura. I pazienti ricoverati in medicina interna sono più complessi, più gravi, più fragili e spesso più critici. Dobbiamo essere bravi far capire alle persone che se sono fragili, comorbide e se hanno un problema critico, l’internista è la risposta a quel problema”.
La medicina interna 3.0 va insomma ridefinita nei percorsi, nelle sue attività e competenze e quindi riorganizzata. Ma da dove iniziare? “L’organizzazione del lavoro in medicina interna viene gestita da norme e da leggi a cui nessuno può sottrarsi; è come per una squadra di calcio - ricorda Gerardo Mancuso, vice-presidente SIMI – con un modulo vecchio di 40 anni fa, che risale all’epoca della riforma sanitaria e che individua la medicina interna come una specialità a bassa intensità di cure. La realtà però racconta un’altra storia. I pazienti che afferiscono in medicina interna, per oltre il 55%, sono complessi e necessitano di un’assistenza intensiva; buona parte di questi in passato erano assistiti in rianimazione. Ma l’internista nel corso del tempo ha sviluppato la capacità di gestire la complessità. Dobbiamo dunque inserirci nelle dinamiche delle nuove norme, come abbiamo già fatto insieme a FADOI con l’azione di correzione del DM 70, attualmente in esame del Senato; qui abbiamo inserito la questione della più alta intensità di cure, sintetizzata nella definizione di una ‘subintensiva internistica’ e abbiamo già ottenuto il codice 94, che identifica la medicina che gestisce la più alta intensità di cure. Ma adesso dobbiamo fare un altro passo, quello di inserirci nella Donat Cattin per cambiare il livello di intensità di cure assegnato alla medicina interna. Siamo assolutamente in sintonia con FADOI e i risultati li potremo ottenere facendo fronte comune”.
Ma allora, come rendere il sistema appropriato, così che riesca ad accogliere e a gestire adeguatamente la complessità, che è poi il cavallo di battaglia degli internisti? “Il problema dell’appropriatezza ha a che fare con il percorso del paziente, con il patient journey – afferma Nicola Montano, presidente della SIMI – Non risolveremo mai il problema del pronto soccorso se pensiamo che sia legato solo alla struttura e al personale del pronto soccorso; dobbiamo rivedere tutto il percorso dall’inizio alla fine. Perché l’appropriatezza è figlia di un percorso corretto. Se ci fosse un filtro sul territorio, in ospedale arriverebbero solo le persone con un problema acuto, il pronto soccorso sarebbe meno intasato e le medicine e gli altri reparti specialistici riuscirebbero a ricevere i pazienti. E al contempo bisogna risolvere quel burden di letti ‘sociali’, di cosiddetti ‘bed blockers’ che occupano il 22-25% dei letti, come rivela uno studio SIMI-FADOI fatto in Lombardia. L’appropriatezza insomma dipende dall’esistenza di un percorso virtuoso”.
“Spesso la stampa si occupa dell’affollamento dei pronto soccorso, come se fosse l’unico grande problema della sanità italiana – ribadisce Dario Manfellotto, presidente di Fondazione FADOI – ma non è così. Il pronto soccorso è semmai un marker, un indicatore di quello che accade. Indica un sistema globalmente intasato. La sanità è una filiera che parte dalla casa, dalla famiglia, dai servizi territoriali, va al pronto soccorso, poi nei reparti ospedalieri e torna al territorio. È un sistema di vasi comunicanti e se uno è intasato, si ferma tutto. Se non si riesce ad arginare il ricorso al PS perché la richiesta è tanta o complessa, il paziente va sua sponte in PS e si generano accessi e ricoveri inappropriati. Ad essere difficili sono spesso anche le dimissioni, perché molti di questi pazienti non riescono a tornare a casa, le famiglie non li possono assistere, lungodegenze e riabilitazioni hanno numeri inadeguati. E dunque bisogna agire a tutti i livelli”.