Il 9 giugno scorso si sono tenute le prime audizioni in Senato, presso le Commissioni Giustizia e Sanità, riguardanti i disegni di legge sul suicidio medicalmente assistito. Alberto Giannini, del Comitato etico di Siaarti, ha parlato della difficoltà di definire il trattamento di sostegno vitale. Il trattamento di sostegno vitale è il requisito più ambiguo previsto dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale che ha legalizzato l’aiuto al suicidio medicalmente assistito per le persone malate a determinate condizioni.
Giannini, durante l’audizione, ha dichiarato: “Oggi a differenza di parecchi anni fa non esiste una definizione di trattamento di sostegno vitale, nel contesto scientifico, chiara e accettata in tutto il mondo. Io sono un intensivista, un rianimatore. Nella nostra attività di trent’anni fa era molto chiaro: era il vicariare una funzione vitale, respirazione, l’attività cardiaca, la funzione renale, l’uso di alcuni farmaci. Oggi tutto questo si è estremamente allargato e non abbiamo una definizione così nitida che valga in tutte le circostanze. È fondamentale non fare un elenco dei trattamenti che rispondono a questo requisito, perché non c’è una definizione unanime. Vorrei proporre di considerare sempre l’elemento soggettivo della gravosità. Quando si parla di proporzionalità dei trattamenti, delle cure in generale, si pesano due elementi: da un lato l’appropriatezza clinica, dall’altra la gravosità degli oneri che ci racconta il paziente. Anche la Pontificia Accademia per la Vita, parlando di supporti vitali, inserisce nella difficoltà del definire il termine la consapevolezza che poi è sempre necessario tenere conto della specifica situazione clinica di ogni paziente”.
Persone diverse affette da patologie diverse e in una fase diversa della malattia. Una interpretazione dei requisiti in senso restrittivo avrebbe limitato la loro libertà di scelta. I disegni di legge all’esame dei Senatori non sciolgono questo nodo. Ma l’aiuto fornito a chi, dopo un incidente o altro trauma, è tenuto in vita da un presidio medico non si differenzia, su un piano costituzionale, dall’aiuto a una persona, afflitta da una malattia degenerativa o da un tumore, che non ha presidi medici vitali intesi come macchinari. L’interpretazione restrittiva si scontra oggi con i limiti posti dalla norma penale e la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi su questa nuova questione di legittimità costituzionale che nel 2018 non era all’esame della Corte.”
“La Siaarti – aggiunge Mario Riccio, anestesista che aiutò Welby a morire e che curò la parte tecnica del primo suicidio medicalmente assistito in Italia – ha innanzitutto ribadito l’importanza delle cure palliative che non si pongono in contrapposizione alla eventuale scelta del paziente di aiuto al morire, ma spesso sono integrative a tale scelta come ci indicano le esperienze dei paesi che hanno già legiferato in materia. Sulla definizione su cosa oggi – nella pratica medica – si possa intendere per ‘forma di sostegno vitale’, come da loro sostenuto, non è certamente possibile attenersi alla imprecisa e sbrigativa definizione che ne ha voluto dare recentemente il Comitato Nazionale per la Bioetica che si è rifatto a un ormai vetusto e inappropriato concetto di mera ‘sostituzione di organo vitale’. Definizione in contrasto con recenti e numerose sentenze e posizioni di comitati etici ospedalieri. Non a caso tale criterio non è presente in nessuna norma di alcun paese che abbia già legiferato in materia, rappresentando pertanto un unicum in materia giuridica”.