Secondo le recenti dichiarazioni del Presidente FNOMCeO Filippo Anelli e della Presidente FNOPI Barbara Mangiacavalli occorrerebbe, alla luce delle criticità evidenziate da non pochi sindacati di categoria, legate alla “fuga” dei professionisti sanitari dalle strutture del SSN, chiedere il riconoscimento della condizione di “lavoro usurante”, essendo presenti i presupposti specificati dal decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 374 in cui i lavori usuranti sono definiti “quelli per cui è richiesto un impegno psicofisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere prevenuti da misure idonee.”
Vale la pena ricordare anche il decreto 19 maggio 1999, il cosiddetto “decreto Salvi”, con il quale sono stati indicati i criteri di valutazione per il lavoro usurante, per rendersi conto del coinvolgimento anche degli operatori sanitari: l’attesa di vita al compimento dell’età pensionabile; la prevalenza della mansione usurante; la mancanza di possibilità di prevenzione; la compatibilità fisico-psichica in funzione dell’età; l’elevata frequenza degli infortuni, con particolare riferimento alle fasce di età superiori ai cinquanta anni; l’età media della pensione di invalidità; il profilo ergonomico; l’esposizione ad agenti chimici, fisici, biologici, individuati secondo la normativa di prevenzione vigente.
Il significato di “usura”, applicato al lavoro, è determinato in base alla sua definizione comune, che è quella di logoramento, deterioramento, consumo. Il concetto di lavoro usurante si riferisce ad attività che per la loro gravosità determinano un invecchiamento precoce. La letteratura scientifica in materia di medicina del lavoro e medicina legale asserisce che dopo una certa età le capacità psicofisiche necessarie per l’espletamento di alcune attività in particolare manuali in condizione di efficienza e sicurezza si riducono fino a venire completamente meno.
La categoria dei chirurghi, degli anestesisti e degli infermieri professionali operanti in queste discipline, ad esempio, è esposta a una combinazione di fattori di rischio che producono effetti tra loro additivi e moltiplicativi, come le radiazioni ionizzanti, il rischio chimico, i fattori legati alla disergonomia tra cui biomeccanici, stress lavoro-correlato, lavoro notturno, biologico. Essi inoltre assai spesso sono tenuti ad indossare camici in piombo in dotazione al personale radio-esposto, e sono soggetti ad ulteriori fattori di rischio biomeccanico, quali ad esempio la postura eretta prolungata.
La Commissione istituita dall’art.1, comma 474, della Iegge 160/2019, con l'attribuzione dei seguenti compiti: “studiare la gravosità delle occupazioni, anche in relazione all'età anagrafico e alle condizioni soggettive dei lavoratori e delle lavoratrici, anche derivanti dall'esposizione ambientale o diretta ad agenti patogeni ”ha riconosciuto nel 2021 già la condizione di “lavoro gravoso” per le professioni sanitarie che, ad oggi, come è stato precisato, non sarebbe più sufficiente….
A chiarirci le idee ci ha pensato una Sentenza della Cassazione, la n. 5937 del 1981 che precisa in linea generale:
«lavoro usurante è quello sproporzionato alle possibilità psicofisiche dell’individuo, tale da determinare l’instaurarsi o l’aggravarsi di uno stato patologico, cioè quel lavoro nel quale l’organismo logora le proprie energie in un periodo di tempo più breve ed in misura superiore al normale. Un complesso morboso che possa, secondo un criterio di fondata previsione, determinare un grave pregiudizio per la residua efficienza fisica del soggetto, in conseguenza del perdurare dell’attività lavorativa, è da ritenersi invalidante […] un tale pregiudizio […] non va confuso con il peggioramento potenziale e futuro dipendente dalla naturale evoluzione dell’infermità, di cui invece non può tenersi alcun conto […]».
Esattamente sulla stessa linea si colloca la sentenza n. 755 del 1986 secondo la quale «il carattere usurante di un’attività lavorativa […] sussiste allorché il lavoro richieda uno sforzo eccessivo e doloroso e comporti uno sfruttamento anormale delle energie residue […] e quindi una situazione di pericolo per la salute, tale da aggravare le infermità dell’assicurato con la precisazione peraltro che l’eventuale peggioramento dello stato di salute dell’assicurato medesimo non deve dipendere dalla naturale evoluzione delle infermità, della quale non può tenersi conto ai fini del giudizio sull’invalidità pensionabile»
A tal proposito, anche in considerazione del recentissimo provvedimento legislativo di elevare a 72 anni la possibilità di permanere per i professionisti sanitari nel SSN, ci sembra opportuno riportare qualche passaggio di un recente ed interessante studio per rafforzare la necessità di avviare per i professionisti della sanità una nuova procedura che porti a riconoscere, soprattutto per quelli che operano in situazioni critiche per la complessità delle prestazioni da assicurare con tempestività ed in carenza di personale, le loro attività lavorative come “usuranti”.
Parliamo delle riflessioni pubblicate nel Volume 162 del 12 gennaio 2022 della Rivista Internazionale “Ricerca sugli indicatori sociali” delle Edizioni Springer, dove i numerosi autori hanno rilevato, tra i lavoratori di età compresa tra 60 e 64 anni nel 2013, prevalenze piuttosto elevate di soggetti che riferivano limitazioni fisiche o affetti da condizioni di salute potenzialmente limitanti la loro capacità lavorativa, nonché percentuali elevate di soggetti esposti a condizioni di lavoro sfavorevoli.
“Mentre l’Italia, così come la maggior parte dei paesi europei, stanno inasprendo le condizioni di ammissibilità al pensionamento, viene precisato nella pubblicazione, l’esposizione ai rischi sul posto di lavoro dovrebbe essere ridotta tra i lavoratori più anziani, sia per la loro elevata suscettibilità a potenziali effetti sulla salute, sia per evitare che la loro ridotta capacità lavorativa aumenti i loro tempi precoci di uscita dal mercato del lavoro attraverso periodi di disoccupazione, assenza per malattia di lunga durata o pensionamento per invalidità, nell'impossibilità di andare in pensione regolarmente.
Queste forme di ritiro anticipato dal mercato del lavoro hanno infatti conseguenze costose sia a livello individuale che sociale, determinando potenzialmente perdite di reddito ed esclusione sociale e aumentando l’onere a carico del sistema di welfare per affrontarle.
Poiché si prevede che una parte sostanziale delle aziende (comprese quelle sanitarie, diciamo noi) non disporrà di risorse sufficienti per adeguare il proprio posto di lavoro alla ridotta capacità lavorativa di parte dei dipendenti più anziani, è necessaria una maggiore flessibilità nella tempistica del pensionamento (possibilmente con esenzioni ad hoc e costantemente aggiornate per i lavoratori esposti a lavori potenzialmente dannosi per la loro salute) o interventi pubblici strutturali per aiutare e sostenere le aziende nella transizione verso ambienti di lavoro più favorevoli all’invecchiamento per gestire i problemi di salute dei lavoratori e adattare le condizioni di lavoro alla loro età. Ciò consentirebbe ai soggetti con condizioni di salute che limitano l’attività lavorativa di decidere se continuare o meno a lavorare negli ultimi anni della carriera lavorativa, anche in considerazione delle condizioni lavorative, eventualmente senza sostanziali riduzioni del reddito in caso di pensionamento.”
“In particolare, coloro che lavorano in ambienti di lavoro caratterizzati da potenziali rischi per la salute, come l’esposizione a sostanze chimiche o rumore elevato, sforzi fisici intensi, ritmi di lavoro elevati, lavoro a turni o durante orari non sociali possono essere maggiormente a rischio di conseguenze sulla salute. Infatti, è stato segnalato che i lavoratori più anziani sono più suscettibili all’esposizione prolungata ai rischi lavorativi rispetto ai lavoratori più giovani, in particolare all’esposizione a rischi fisici e psicosociali, che sembrano avere un impatto maggiore sulla loro salute (Aittomäki et al., 2005; Burr et al., 2017 ; da Costa & Vieira, 2010 ; de Zwart et al., 1995 ; Theorell et al., 2015 ). Diversi studi hanno riscontrato tra i lavoratori anziani una maggiore prevalenza di morbilità cronica (Koolhaas et al., 2014 ; Niedhammer et al., 2008 ), in particolare disturbi muscoloscheletrici cronici, che sono particolarmente comuni tra i lavoratori dopo i 50-55 anni (Okunribido et al ., 2011 ; Plouvier et al., 2011 ; Sim et al., 2006 ).”
Domenico Della Porta