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Sulle DAT troppe domande fondamentali inevase

di Benedetto Fucci

Il provvedimento ora all’esame del Senato rappresenta un mezzo sbagliato non solo nei contenuti ma anche nelle modalità in cui esso è maturato nel precedente passaggio alla Camera. Purtroppo non mi sento di dire che nelle attuali condizioni politico-istituzionali siamo in grado, con il provvedimento di cui si dibatte e alla luce dei suoi contenuti, di dare delle risposte.

04 AGO - Ho letto con interesse l’articolo pubblicato su Quotidiano Sanità il 2 agosto, relativo alle prospettive incerte del disegno di legge sulle disposizioni anticipate di trattamento. Siamo ormai in tempi di riflessioni sull’attività parlamentare e di analisi dei prossimi scenari a partire dalla ripresa in settembre.
 
In tale contesto desidero sottolineare come il provvedimento ora all’esame del Senato rappresenti a mio avviso un mezzo sbagliato non solo nei contenuti ma anche - ed è questo il punto che più mi sta a cuore – nelle modalità in cui esso è maturato nel precedente passaggio alla Camera, del quale sono stato testimone diretto. Dopo alcuni recenti fatti di cronaca ritengo che non ci si possa non interrogare su un tema, quale è quello del fine vita, che pone a tutti noi domande assolutamente centrali e delicate che, in definitiva, da sempre assillano la coscienza umana e impegnano la religione, la filosofia, la sociologia e la medicina: qual è lo standard minimo in tema di tutela della vita e di rispetto della volontà di persone che chiedono di staccare la spina qualora rimanessero in coma? Nel nostro Paese, come conciliare l'inviolabilità della vita umana con la possibilità contemplata dall'articolo 32 della Costituzione, per ogni cittadino capace di intendere e di volere, di respingere forme di accanimento terapeutico?
 
Si tratta di interrogativi di enorme portata etica, morale e – per chi professa un credo – religiosa; ma si tratta anche di interrogativi che investono direttamente il ruolo dello Stato e il suo rapporto con la vita dei propri cittadini, e rispetto ai quali le sensibilità presenti nella società italiana sono ovviamente le più varie. Rispetto a un quadro tanto complesso, continuo a ritenere sbagliato il modo con cui la maggioranza ha voluto portare avanti un provvedimento così delicato.

Occorre muoversi con grande delicatezza nel momento in ci si trova stretti tra la necessità di rispettare l’articolo 32 della nostra Costituzione – che recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» – e quella di ricordare che compito della medicina è quello di fare il possibile per salvare vite umane. Purtroppo alla Camera ha prevalso un orientamento incapace, o forse più semplicemente senza la volontà, di tenere conto proprio del ruolo del medico, visto come un mero esecutore.

Venendo al concreto contenuto del provvedimento sulle Dat, desidero ribadire quattro principi per me imprescindibili:
- Il primo è che quelle della rinuncia all'accanimento terapeutico o della volontà di prendere provvedimenti per calmare i dolori (medicina palliativa) sono scelte fondamentali strettamente connesse al principio del cosiddetto consenso informato;
- Il secondo principio è che il non accanimento terapeutico è cosa ben diversa dall'eutanasia, che non può essere in alcun modo accettata e deve anzi essere punita sul piano penale.
- Il terzo principio è che idratazione e alimentazione, pur se somministrate per via artificiale a persone purtroppo non più in grado di provvedere a se stesse, non possono e non potranno mai essere considerate come forme di accanimento terapeutico.
- Il quarto principio è relativo all’importanza della collaborazione, in un clima di serenità e di fiducia, tra il medico e il fiduciario. Ciò è assolutamente fondamentale nell'ambito della cosiddetta alleanza terapeutica.

Sono questi principi a spingermi a porre delle domande purtroppo rimaste senza risposta nelle fretta di portare a compimento l’iter alla Camera del ddl: quando un soggetto potrebbe disporre della propria vita? Un attimo prima della propria morte o in un qualsiasi momento della propria esistenza, una volta che si è divenuti capaci giuridicamente di intendere e volere? E ancora, se questa volontà non fosse scritta ma semplicemente manifestata verbalmente, quella stessa manifestazione di volontà potrebbe essere considerata testamento biologico? O piuttosto non rischiamo di imbrigliare una scelta così importante in una manifestazione di volontà non revocabile? E ancora, ribadendo un concetto fondamentale: come si può chiedere ad un medico di rendersi mero esecutore?

Purtroppo non mi sento di dire che nelle attuali condizioni politico-istituzionali siamo in grado, con il provvedimento di cui si dibatte e alla luce dei suoi contenuti, di dare delle risposte.

Benedetto Fucci
Direzione Italia

Camera dei deputati 

04 agosto 2017
© Riproduzione riservata

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