Fine vita. Con il nuovo testo di legge si potrà distinguere tra DAT e pianificazione anticipata delle cure
di Daniele Rodriguez
Luca Benci descrive bene come, per il riconoscimento di diritti fondamentali, le persone siano costrette a percorrere quella che viene definita "via italiana alle 'dichiarazioni' anticipate di trattamento". La concretizzazione in legge del testo unificato approvato in XII commissione alla Camera sarebbe strumento di straordinaria efficacia per fare chiarezza e per superare le procedure della attuale "via italiana".
15 DIC - L'articolo di
Luca Benci pubblicato in QS il 13 dicembre 2016 dal titolo significativo
"Da Welby a Piludu. Com’è calata l’attenzione sul fine vita" merita di essere ripreso, perché il calo dell'attenzione riguarda soprattutto i mass media e lo spazio comunicativo che offre QS può essere utilizzato per condividere, con un ampio pubblico, contenuti ed idee utili per una sistematica ripresa delle tematiche connesse alle scelte di fine vita.
È ben vero che QS è giornale che si rivolge prevalentemente ad un pubblico tecnico, ma è forse proprio da questo pubblico che si può utilmente ripartire per dare voce a quanti sono costretti, per ottenere il riconoscimento di diritti fondamentali, a percorrere quella che Benci definisce «via italiana alle “dichiarazioni” anticipate di trattamento».
Questa "via", assolutamente impervia e quindi da superare sostituendola con un percorso di più semplice realizzazione, comunque esiste e credo che sia da diffondere proprio la notizia della sua esistenza e della sua praticabilità, per quanto – come detto – impervia. Inoltre, proprio l'analisi dello strumento tecnico-giuridico che sta alla base di questa "via" porta ad alcune conclusioni che possono aprire strade diverse, alternative e basate sull'assunzione di responsabilità da parte dei medici, come illustrato alla fine di questo articolo.
Scrive efficacemente Benci: «Ancora una volta, allora, è in prima linea l’azione vicariante della giurisprudenza a disegnare la mappa dei diritti civili di questo paese.» Lo strumento che permette questa azione vicariante è l'amministrazione di sostegno ed è proprio su quest'istituto giuridico, considerato in rapporto alle direttive/dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) che ritengo utile soffermarsi per affrontare il discorso del rispetto delle persone nelle decisioni di fine vita.
L'amministrazione di sostegno è istituto di protezione delle persone fragili introdotto nel codice civile con legge 9 gennaio 2004, n. 6: ha l'obiettivo di «tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte dell'autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente» (art. 1). I presupposti sono costituiti da una infermità o da una menomazione fisica o psichica e dall'impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.
L’amministrazione di sostegno, riguardando la cura della persona globalmente intesa, è applicabile per promuovere la salute del beneficiario. Fin dai primi decreti, i giudici tutelari incaricano l’amministratore di sostegno di sostenere la persona in condizione attuale di incapacità nella scelta del trattamento medico più appropriato o di comunicare ai curanti ed invitarli a rispettare le decisioni precedentemente espresse dal paziente attualmente incosciente.
Dopo qualche anno, coerentemente con l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità (con particolare riferimento alla vicenda di Eluana Englaro), l’amministrazione di sostegno è utilizzata come strumento processuale consono, in mancanza di specifiche indicazioni legislative, per rendere effettive le DAT; i giudici tutelari si pronunciano anche su ricorsi presentati da persone senza attuali o imminenti problemi di salute, finalizzati alla nomina di un amministratore di sostegno che garantisca il rispetto delle loro scelte di salute, nell’eventualità di una futura incapacità.
Da una nostra recente ricerca (MARCHESE V., BOLCATO M., TOZZO P., RODRIGUEZ D., Amministrazione di sostegno e direttive anticipate di trattamento, in Riv. It. Med. Leg,, 2016; 38/3: pp. 1052-76) è emerso che si è venuta così strutturando, negli anni, una casistica di ricorsi al giudice tutelare riconducibile a tre situazioni:
I) nomina dell’amministratore di sostegno per manifestare ai curanti la volontà, espressa precedentemente o ricostruibile, del beneficiario incosciente (trovati 14 casi pubblicati);
II) nomina anticipata dell’amministratore di sostegno, giustificata dalla probabile e imminente perdita di capacità del beneficiario (12 casi pubblicati)
III) nomina anticipata dell’amministratore di sostegno su ricorso del beneficiario competente (pienamente consapevole) e in salute per l’eventualità di una futura impossibilità di provvedere ai propri interessi (7 casi pubblicati).
Ciascuno di questi casi è meritevole di attenzione. In questa sede, per ora –riservandomi di riprendere in dettaglio i contenuti della casistica in un successivo scritto – mi limito a segnalare:
a) che i decreti sopra elencati si riferiscono in genere ad attività sanitarie che i medici, su richiesta dell'amministratore di sostegno, sono chiamati a non porre in essere in conformità con le aspirazioni del beneficiario; l'unica condotta operativa che l'amministratore di sostegno, secondo i casi, ha il mandato di chiedere in nome e per conto del beneficiario à costituito dalle cure palliative; correttamente, dunque, Luca Benci rileva la peculiarità e la carica innovativa del decreto che riguarda Walter Piludu, quando scrive «a memoria non si ricorda una richiesta di sospensione alle cure o, in caso di mancato accoglimento, alla “sedazione terminale"»;
b) che non tutte le istanze di nomina di amministratore di sostegno sono state accolte dai diversi giudici tutelari e che è rilevabile disomogeneità nei vari decreti, specialmente per quanto riguarda le tipologie II) e III) fra quelle poco sopra schematizzate, accomunate dal fatto che si tratta di ricorsi relativi a "nomina anticipata".
Il fondamentale aspetto di contrasto nella giurisprudenza di merito è trattato nella sentenza 20 dicembre 2012, n. 23707 della Corte di Cassazione, che stabilisce che la procedura giudiziale di nomina dell’amministratore «implica il manifestarsi della condizione di infermità o incapacità della persona», quindi deve essere attivata solo nell’attualità della situazione di impossibilità di provvedere ai propri interessi.
Questa sentenza è stata oggetto di puntuali interventi critici (CORRENTI F.R., FINESCHI V., FRATI P., GIULINO M., Direttive anticipate di trattamento e amministrazione di sostegno: la Corte di Cassazione richiede lo stato d'incapacità attuale e non futuro, in Resp. Civ. Prev., 2014; 79/1, pp 695-703; S. CACACE, Il rifiuto del trattamento sanitario, a scanso d’ogni equivoco, in Riv. It. Med. Leg,, 2014, 36/2: pp 547-562) ed alcuni giudici tutelari si sono discostati motivatamente dai principi di diritto in essa enunciati (Tribunale di Modena, decreto 24 febbraio 2014). Sta comunque di fatto che questa decisione riduce la portata applicativa dell’istituto dell'amministrazione di sostegno come veicolo per le DAT: ma proprio tale limitazione può essere utilizzata per una riflessione più ampia sul significato stesso delle DAT.
Per questa riflessione è di aiuto la giurisprudenza di merito. Infatti, quasi paradossalmente, una indicazione straordinaria proviene da alcuni decreti di rigetto, ispirati ad un’interpretazione restrittiva delle norme, analoga a quella della Cassazione appena menzionata, per cui sarebbe richiesta la contestualità tra la nomina dell'amministratore di sostegno e l’impossibilità di provvedere ai propri interessi.
In particolare: un decreto (Tribunale di Mantova, decreto 24 luglio 2008) evidenzia la carenza dell’interesse del provvedimento di nomina di un amministratore di sostegno perché il dissenso manifestato dall’amministratore risulterebbe meramente confermativo di quello già formalizzato in appositi moduli dalla persona e ribadito dal paziente stesso ai curanti; un altro decreto (Tribunale di Genova, decreto 6 marzo 2009) argomenta che «di fatto la misura di protezione non apporterebbe alcun valore aggiunto rispetto alla ferma volontà sino a quel momento espressa direttamente dall’inferma, adeguatamente documentata e giornalmente verificata dai medici, e che dovrà, comunque, essere tenuta in doverosa considerazione dai sanitari».
Viene così implicitamente enunciato il principio della inutilità del ricorso all’amministrazione di sostegno come strumento per rendere effettive le DAT quando corrispondono alla volontà manifestata ai curanti, attualmente o in precedenza, dalla persona, informata e consapevole del progredire della malattia e della connessa perdita di coscienza o, comunque, della totale impossibilità a manifestare le proprie intenzioni. Anzi nelle frequenti situazioni in cui la volontà è espressa dal paziente, informato e consapevole, in riferimento a un progetto di cura concordato con i professionisti sanitari, non siamo proprio di fronte a DAT.
Osservo che il medico ha addirittura uno strumento specifico, enunciato nel proprio codice di deontologia medica, nel secondo comma dell'art. 26: "Il medico riporta nella cartella clinica i dati anamnestici e quelli obiettivi …; registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione". Il codice di deontologia medica contempla dunque, sia pure limitatamente ai pazienti con "malattia progressiva", una pianificazione anticipata delle cure come espressione formale, da riportare in cartella clinica, del progetto di cura, necessariamente concordato con il paziente.
Tale pianificazione anticipata, concordata con il paziente, esprime dunque la sua volontà libera e consapevole circa la gestione degli interventi sanitari, anche futuri, relativi alla malattia di cui è portatore ed alle complicanze delle quali è stato reso edotto.
Anche se il codice di deontologia medica non prevede espressamente che la pianificazione anticipata delle cure debba essere rispettata dal medico in caso di sopravvenuta incapacità del paziente ad autodeterminarsi, essa resta documento esaustivo che esprime la volontà consapevole del paziente al quale, proprio per questo motivo, occorre conformarsi. La manifestazione di volontà all'interno della pianificazione condivisa della cura continua a essere attuale e valida oltre il momento della sua espressione.
Come ho già scritto in un
recente articolo pubblicato in QS merita plauso il testo unificato del progetto di legge "Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari" presentato 7 dicembre 2016 dal Comitato ristretto della XII Commissione permanente (Affari sociali) della Camera dei Deputati. Il testo distingue chiaramente fra DAT e pianificazione anticipata delle cure e appare del tutto in armonia con quanto esposto ed in particolare con la logica dei due decreti di rigetto sopra menzionati. Una sua auspicabile concretizzazione in legge sarebbe strumento di straordinaria efficacia per fare chiarezza e per superare le procedure della attuale "via italiana".
Ma il distinguo fra DAT e pianificazione anticipata delle cure porta ad un'altra considerazione, in relazione alla vicenda umana di
Walter Piludu.
Era proprio necessario un decreto del Giudice tutelare per rispettarne la volontà, consapevole, non equivoca e reiteratamente confermata? Forse vista la peculiarità della richiesta – comportante «l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante respiratore artificiale, previa sedazione» – la risposta può essere positiva. Ma il caso resta pur sempre inquadrabile fra quelli in cui la misura di protezione non apporta alcun valore aggiunto rispetto alla ferma volontà espressa direttamente dall’infermo, adeguatamente documentata e verificata dai medici, e che va, in ogni caso, rispettata dai medici.
Daniele Rodriguez
Professore ordinario di Medicina legale nell'Università di Padova
15 dicembre 2016
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