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Standard ospedalieri. Il regolamento non riforma l’ospedale ma lo “de-ospedalizza”

di Ivan Cavicchi

Quello che andrebbe fatto non è “deospedalizzare”, ma “rispedalizzare” una idea riformata di tutela, definendo un nuovo genere di ospedale. Bisogna sviluppare il discorso e accettare l’idea che a questo paese serve un cappotto, nuovo, che rivoltare quello vecchio non basta più perché ormai è troppo logoro.

05 SET - Ministero e Regioni, questa estate, hanno approvato il regolamento per la “definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera”. In tale circostanza la ministra Lorenzin ha affermato, e secondo me non a torto, che il parametro del “posto letto” quale referente di organizzazione degli ospedali è inadeguato e che bisogna “pensare ad un sistema più raffinato” (QS 6 agosto). Con ciò la ministra, riferendosi al patto per la salute, ha implicitamente ammesso che la questione ospedale è affrontata a tutt’oggi con parametri rozzi e sommari e che il regolamento, appena approvato, si ispira a logiche inadeguate. Vi è quindi un ritardo riformatore.
Vediamo questo regolamento:

·      esso si muove nella logica della razionalizzazione della omogeneità e della standardizzazione... cioè stabilisce vincoli per contingentare “l’ospedale che c’è” contingentando il numero dei posti letto

·      il suo scopo è ridurre il numero dei posti letto per riconvertire un eccesso di funzione causato da un eccesso di strutture e di personale quindi stabilire quanta spedalità pubblica e convenzionata sia “programmabile” cioè a carico del servizio sanitario

·      continua ad usare il bacino di utenza quale criterio per classificare gli ospedali in tipologie .

·      la sua logica è volumetrica nel senso che il numero delle strutture , la loro eventuale integrazione dipartimentale o la loro organizzazione per intensità di cura dipende alla fine dal rapporto numero dei posti letto, numero annuo di prestazioni e esiti.

Il regolamento, in sintesi, non riforma l’ospedale ma lo “de-ospedalizza” con l’aggiunta di:

·      alcune novità marginali (gli standard generali di qualità secondo il modello di clinical governance, le reti in base al modello hub and spoke ecc);

·      alcune indicazioni europee (percorsi di integrazione terapeutici assistenziali, presa in carico multidisciplinare quali le breast unit , sostegno psicologico ai pazienti oncologici e ai loro familiari);

·      immancabili principi per l’ integrazione ospedale territorio nel senso di ammissioni appropriate, dimissioni pianificate e protette, percorsi assistenziali integrati, ecc).
Ma alla fine della fiera, cioè stringi stringi, il regolamento ribadisce ciò che era già stato deciso, cioè la dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del Servizio sanitario regionale, ad un livello non superiore al parametro nazionale di 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per mille abitanti per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie. L’operazione di fondo è e resta la deospedalizzazione.

Veda gentile ministra Lorenzin il “posto letto” che Lei giustamente critica non è altro che una sinéddoche, cioè un modo di definire il tutto attraverso una parte. Criticare il posto letto significa criticare tutto quello che lo spiega e lo giustifica come parametro di programmazione e ciò che lo spiega è da un punto di vista normativo e culturale la riforma ospedaliera del 68 quindi un certo “genere” di ospedale quello, per intenderci , che si è affermato dall’inizio del 900 ad oggi. Nel definire lo standard di posti letto come unico criterio ordinatore dell’ospedale si conferma un “genere” di ospedale che ha più di un secolo. Criticare il criterio del posto letto a “genere” di ospedale invariante non è così convincente come non è convincente riattualizzare, come fa il regolamento, una vecchia idea di programmazione ospedaliera.

 

Il regolamento è semplicemente un atto separato e distinto di programmazione sanitaria esattamente come è previsto dalle norme sulla programmazione ospedaliera del 68 in barba a tutti i discorsi sull’integrazione, sulla continuità, sulle cure primarie e sul territorio ecc. Tutti sanno che la necessità di posti letto è funzione dell’intero sistema di servizi, e che non si possono programmare posti letto senza definire a monte le condizioni para-ospedaliere dell’assistenza. La necessità di posti letto è in pratica inversamente proporzionale all’entità del sistema dei servizi.

 

Ma il regolamento sugli standard ignora tale interdipendenza e usa il posto letto quale criterio autoriferito come se esistesse solo l’ospedale. La differenza tra il ministro Mariotti, autore della normativa alla quale si continua ad attingere, e la ministra Lorenzin è che il primo voleva un cappotto, cioè voleva costruire un moderno sistema ospedaliero, la seconda quel cappotto lo vuole rivoltare (come si faceva una volta per risparmiare), e ricavarne, come si dice a Napoli, una “scazzetta” (lo zuccotto del prete). Cioè la differenza è a genere di ospedale invariante tra una politica di spedalizzazione e una politica di deospedalizzazione. Mariotti usava il posto letto per costruire un sistema, la Lorenzin e le regioni usano il posto letto per decostruire il sistema.
Per pensare a un “sistema più raffinato” e, aggiungo io, più integrato si dovrebbe rispondere ad alcune domande:

·      a quale idea culturale di “tutela”, l’ospedale dovrebbe riferirsi e in quale sistema organizzato di servizi esso dovrebbe operare dal momento in cui ,esso non può che essere considerato un sottosistema tra sottosistemi di un unico sistema?

·      quale “genere” di ospedale sarebbe appropriato all’idea di tutela del terzo millennio?

·      quale programmazione si renderebbe necessaria se si assumesse un sistema di tutela unico e unitario che superi le divisioni che oggi tanto ci fanno patire (cure primarie/secondarie, territorio/ospedale, medici di base/ospedalieri/universitari ecc) e che definisca i diversi sottosistemi di tutela come interdipendenti ?Se i sottosistemi devono essere interdipendent ,è un errore programmarli separatamente, siano essi le cure primarie o ospedaliere e poi pensare “a mani nude” di integrarli .

·      quale sistema interconnessionale (non integrato) se nella logica della continuità assistenziale non esiste un primario e un secondario ma un prima e un dopo, cioè percorsi e progressioni quindi traiettorie che traversano inevitabilmente più sottosistemi (dal luogo di vita al letto in ospedale) e che si caratterizzano non in base al bacino d’utenza ma alla complessità del bisogno?

·      quali parametri organizzativi pertinenti alle caratteristiche del bisogno del malato , dal momento che ormai il concetto di acuzie coincide in gran parte con quello di complessità? Il posto letto e il bacino di utenza sono parametri fallaci perché non riferiscono in alcun modo della complessità di un bisogno e creano inappropriatezza strutturale;

·      quali organizzazioni del lavoro dal momento che oggi balbettiamo tra taylorismo e toyotismo tra i dipartimenti della Mariotti e l’intensità di cura, cioè tra ciò che comunque continua ad essere concepito come diviso e una idea di integrazione interamente appiattita su vecchi concetti di acuzie non di complessità come il caso dell’intensità di cura, scambiando e confondendo cura con assistenza?

·      quali professioni rispetto sia alla nuova idea di tutela che a quella di complessità e a quella di organizzazione interconnessionale? Se non è convincente pensare di risolvere le gravi questioni professionali senza passare per un progetto di riforma del lavoro , allora non è convincente pensare di riformare l’ospedale a professioni invarianti. La post ausiliarietà degli infermieri e il loro sistematico demansionamento non si risolverà mai se si resta come fa il regolamento dentro la logica della Mariotti e non saranno certo le competenze avanzate a risolvere il problema. La stessa cosa per i medici ospedalieri che tra blocco del contratto e del turn over e deospedalizzazione pensano di disincagliarsi rivendicando una carriera e una categoria speciale a ospedale invariante.

·      quali sistemi retributivi,cioè come compensare le capacità interconnessionali, i risultati di salute prodotti dai sottosistemi ,il governo delle complessità, le abilità oltre le competenze, le autonomie in cambio di responsabilità ecc.? L’esito nella logica volumetrica definisce la quantità di posti letto ma perché non definire anche i meriti professionali?
Insomma gentile Ministra a me ha fatto piacere leggere tra le sue parole un’intenzione riformatrice, ma dobbiamo sviluppare il discorso e accettare l’idea che a questo paese serve un cappotto, nuovo, che rivoltare quello vecchio non basta più perché ormai è troppo logoro e quindi abbandonare le logiche della “scazzetta”. Non sono mai stato d’accordo con il concetto di deospedalizzazione ma non perché non voglio chiudere gli ospedaletti, abolire gli eccessi e le inappropriatezze, o riconvertire in territorio (ci mancherebbe altro), ma perché non sono mai stato d’accordo a banalizzare la complessità di un ospedale a una questione solo di volumi e di posti letto e meno che mai a considerarlo ideologicamente come negativo perché costoso. Quello che per me andrebbe fatto non è “deospedalizzare” ma “rispedalizzare” una idea riformata di tutela prima di tutto definendo un nuovo genere di ospedale. Se il posto letto è come è una sineddoche, che senso ha ripensarlo senza ripensare il modello di ospedale che gli si riferisce?

 

Ivan Cavicchi

 

05 settembre 2014
© Riproduzione riservata


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