Autonomia differenziata. Il governo Meloni sacrifica sull’altare degli equilibri di maggioranza un diritto costituzionalmente tutelato
di Pierino Di Silverio e Costantino Troise
Si sta giocando una partita fondamentale per il futuro del Paese. Decentrare funzioni, senza che nemmeno esistano evidenze, come rilevato dalla Corte dei conti, per affermare che ulteriori gradi di autonomia nelle disponibilità economiche e nella gestione delle risorse aumentino il grado di efficienza dei servizi erogati, legittimare il divario Nord-Sud è un suicidio sociale oltre e prima che professionale e sanitario.
07 FEB - Il Consiglio dei Ministri del 2 febbraio ha approvato alla unanimità il Ddl sull’autonomia differenziata presentato dal Ministro Calderoli che concede maggiori poteri alle Regioni su 23 materie, tra cui la sanità. Tale decreto apre di fatto la strada a più sistemi sanitari, a diversa efficacia e sicurezza, a scapito del Servizio sanitario nazionale.
Il governo Meloni sacrifica sull’altare degli equilibri di maggioranza un diritto della persona costituzionalmente tutelato, uno dei pochi elementi di quella “coesione nazionale” che sembra essere un caposaldo dell’azione mediatica di governo. Sulla questione però, nessun partito può dirsi esente da responsabilità, visto che il tema fu introdotto in Costituzione dal centro sinistra (2001) e che le prime intese con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna portano la firma del governo Gentiloni (2018). Nè si ricordano pronunciamenti contrari in campagna elettorale.
“I cittadini di serie A e quelli di serie B”, di cui parla il Presidente del Consiglio, non sono un rischio paventato ma l’iniqua realtà di oggi, e non si vede come il Ddl possa ridurre le attuali diseguaglianze nella accessibilità ai servizi sanitari tra varie aree del Paese tra le quali le distanze si misurano non solo in km ma in aspettativa di vita (minore al Sud di 4 anni), tassi di mortalità evitabile (maggiori al Sud Di ben 4 giorni pro capite rispetto al centro nord), speranza di vita in buona salute (20 anni tra i due estremi), mortalità infantile (doppia al Sud). Con il paradosso di una mobilità sanitaria che, secondo la Corte dei Conti, ha sottratto in un decennio 14 miliardi di euro dalle regioni del Sud, che continuano a percepire meno soldi da una perequazione di risorse sempre più iniqua.
Ma anche nei servizi sociali il divario è enorme, tra i 583 euro per abitante di Bolzano e i 53 di Messina. Alla faccia della Legge 833/78, istitutiva del SSN, che pone tra i suoi obiettivi il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del Paese e in barba a quell’articolo 32 della costituzione che sancirebbe cure omogenee per l’individuo.
Per capire la logica, se non il metodo, di quello che qualcuno già chiama il “neo porcellum”, aiuta l’insegnamento del giudice Falcone. Seguendo i soldi, si vede che le Regioni del Nord danno allo Stato più di quanto ricevono, a differenza di quelle del Sud. Il saldo è negativo per Lombardia (-5090 procapite), Emilia Romagna (-2811), Veneto (-2680) e positivo per tutto il Sud (Campania + 1380, Calabria + 3086, Puglia +2440, Sicilia +2969) (CGIA, 2019). La possibilità di trattenere più gettito fiscale si potrebbe tradurre per alcune Regioni in prestazioni sanitarie aggiuntive per i propri cittadini, una sorta di LEPs di prima categoria, in violazione del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute. Inoltre, con più gettito a livello locale arriveranno meno risorse a livello centrale, mettendo in dubbio la possibilità di garantire un livello omogeneo di prestazioni essenziali, e non solo in sanità. A condire un piatto avvelenato il ricorso alla definizione dei nuovi LEU sempre su base storica, per evitare forse che Regioni con una storicità di difficoltà possano mai riprendersi.
Eppure, il governo sembra volere procedere a tappe forzate a una “secessione dei ricchi” (Gianfranco Viesti) che, nell’illusione di spendere meno dando servizi omogenei, e migliori, alimenterà quelle diseguaglianze negli esiti di salute tra i territori che Premier e Ministro della Salute dichiarano di volere abbattere. Rendendo l’accesso alle cure, e i loro esiti, funzioni del reddito e della residenza: chi risiede in Regioni “forti” e avrà soldi si curerà, gli altri potranno solo aspettare in liste di attesa che ormai si misurano in semestri se non in anni.
I poteri concessi in sanità spaziano dalla mano libera su tariffe e tickets alla gestione dei fondi integrativi, con il rischio del risorgere di un sistema mutualistico-assicurativo, dalla governance delle aziende, con la possibilità di un sistema arlecchino, all’istituzione regionale di quel contratto lavoro a scopo formativo per gli specializzandi che il Governo, o meglio le Università si ostinano a negare a tutto il sistema nazionale. Senza nemmeno prevedere una clausola di supremazia, essenziale, ad esempio, in caso di pandemia.
Preoccupa anche l’avvio di una concorrenza selvaggia nell’acquisizione delle risorse umane e l’effetto calamita della possibilità di pagarlo al di fuori dei vincoli del CCNL mentre il vincolo di spesa sul personale, che continua a esistere a livello nazionale impedisce di stipulare contratti regolamentati. Con l’approvazione del ddl sulle autonomie nascerebbe di fatto un mercato competitivo per l’ingaggio dei professionisti, nutrito dal dumping salariale e dalle contrattazioni regionali, che rischierebbe di mettere una “pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale e sul ruolo dei sindacati a carattere nazionale” (GIMBE).
I LEPs, vale a dire la soglia costituzionalmente necessaria per rendere effettivi i diritti civili e sociali, giocano un ruolo centrale, non solo per la loro determinazione quanto per il loro finanziamento con costi standard che quantifichino le risorse che lo Stato deve assicurare a ciascuna Regione. Un’impresa impossibile in un sistema sottofinanziato che non vuole “aggravi” per la finanza pubblica, ma deve comporre la differenza del 25% di spesa sanitaria individuale tra Nord e Sud e quella della spesa pubblica allargata (17000 euro procapite al Nord,13000 al Sud). E rispondere a quel 11% della popolazione che rinuncia alle cure per problemi economici o tempi di attesa. Quando la Germania affrontò il problema della riunificazione decise di trasferire ingenti risorse da Ovest ad Est. Senza le quali, Regioni che in partenza sono al di sotto della soglia minima di LEPs non potranno mai recuperare terreno.
Si sta giocando una partita fondamentale per il futuro del Paese. Decentrare funzioni, senza che nemmeno esistano evidenze, come rilevato dalla Corte dei conti, per affermare che ulteriori gradi di autonomia nelle disponibilità economiche e nella gestione delle risorse aumentino il grado di efficienza dei servizi erogati, legittimare il divario Nord-Sud è un suicidio sociale oltre e prima che professionale e sanitario.
Occorre prestare ascolto all’allarme lanciato dal Ministro Schillaci, secondo il quale “Per la salute è necessario che le Regioni siano in qualche modo guidate dal Ministero” perché “i gap che ci sono tra regione e regione, addirittura sull'attesa di vita, sono completamente inaccettabili in una nazione moderna”. Sottraendo al diritto alla salute una dimensione nazionale si mette in crisi il Ssn, “presidio insostituibile di unità del Paese”, secondo il Presidente Mattarella.
Per il momento solo appelli e sparute voci si susseguono in un silenzio politico preoccupante e assordante sul tema. La nostra voce si sente e continuerà a sentirsi e attendiamo con ansia che altre voci si uniscano in un grido che eviti il colpo di grazia al welfare state del nostro Paese. O quel che ne resta.
Pierino Di SilverioSegretario Nazionale Anaao AssomedCostantino TroiseCentro Studi e Formazione Anaao Assomed
07 febbraio 2023
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