Anche la Cattolica stempera timori: "Ci sono molti 'se' in questa legge ma sta alla cultura di un Paese trasformarli positivamente"
di Adriano Pessina
14 DIC - La legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento dovrebbe essere letta a partire da quelli che sono i caposaldi espressi nei comma 1 e 2 dell’articolo 1, dove si richiama sia la “tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione”, sia la “promozione e valorizzazione della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”.
Se questi sono i caposaldi della legge, allora tutta la questione, ritenuta centrale, del rifiuto o della rinuncia ai trattamenti, può essere letta e valutata senza drammatizzazione e senza allinearsi a quanti temono, o auspicano, che questa legge si trasformi nell’anticamera dell’eutanasia.
Se si attua il comma 8 del primo articolo, che stabilisce che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”, si può pensare che i conflitti decisionali possano essere risolti entrando in merito alle situazioni concrete e personali.
Laddove questo conflitto non si risolvesse, è logico e moralmente giusto che la parola ultima spetti ad un paziente che si ritiene capace di comprendere il senso della propria decisione: la legge conferma questa impostazione.
Ma non va sottovalutato il fatto che, qualora si debba decidere per conto di un minore o di un incapace, la legge prescrive che si deve avere “come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita” della persona nel “pieno rispetto della sua dignità” (art. 3 comma 2 e 3).
Si è creato un clima di sospetto nei confronti del potere della tecnologia medica e della medicina: l’articolo 2 conferma il divieto ad ogni ostinazione irragionevole nelle cure e sostiene le pratiche palliative nelle situazioni di fine vita, dando una rassicurazione ai cittadini.
Lo stesso discorso va fatto per le direttive anticipate: chi lo desidera potrà fornire indicazioni di trattamento sapendo che il medico le rispetterà se saranno congrue con la sua reale situazione clinica.
Questa legge può diventare uno strumento burocratico e il consenso informato un “pezzo di carta” da firmare per tutelare un contratto sanitario, oppure l’occasione per un processo di cura e di relazioni personali e cliniche costruito sulla consapevolezza di diritti e doveri che si inscrivono in quella risposta ai bisogni umani che affiorano nel tempo della malattia.
Ci sono molti “se” in questa lettura della legge: ma sta alla cultura di un Paese trasformarli positivamente riscoprendo un nuovo e più maturo significato della cura.
Non sarà una legge a risolvere i complessi problemi umani, clinici e relazionali che riguardano il fine vita. E nella legge in discussione in questi giorni non mancano delle criticità, specie in relazione al dibattuto problema dell'alimentazione e dell'idratazione.
Il no all’eutanasia e all’abbandono terapeutico sono, del resto, il sì al diritto costituzionale alla tutela della vita, della salute, della dignità e dell’autodeterminazione: diritti che la morte toglie, ragione per cui questa non può essere evocata come un diritto o un bene da tutelare.
Prof. Adriano Pessina
Direttore Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica
14 dicembre 2017
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