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Bissoni (Agenas): "Sugli standard ospedalieri evitare il neocentralismo tecnocratico"

di Cesare Fassari

"Non è un problema di difesa aprioristica di competenze ma bisogna agire nel rispetto dei rapporti territoriali". E sui tagli: "Ritrovare il dialogo tra Stato e Regioni per evitare ricadute sui Lea". Sul federalismo non ha dubbi: "Si deve andare avanti ma lo Stato sia realmente garante non solo della spesa ma anche della qualità". Intervista al presidente Agenas

12 NOV - Giovanni Bissoni è architetto, ma nonostante l’architettura sia il suo amore di gioventù, come lui stesso ci ha raccontato “non ha mai preso una matita in mano”. La passione per la politica e soprattutto per il “fare”, in termini di organizzazione, gestione e programmazione della cosa pubblica, lo ha portato quasi subito ad occuparsi d’altro.
 
Prima nel suo Comune di nascita, Cesenatico, di cui è stato assessore, vice sindaco e infine sindaco. E poi in Regione Emilia Romagna, dove viene eletto per la prima volta consigliere regionale nel 1990. Da lì inizia una lunga esperienza nell’amministrazione regionale che lo porterà ad essere per tre legislature assessore alla Sanità di uno dei servizi sanitari regionali più accreditati d’Italia.
Con le regionali del 2010 si chiude l’esperienza politica in Regione e di lui si perdono quasi le tracce, per scoprire poi che, salvo onorare l’incarico nel Cda di Aifa (su nomina delle Regioni), li ha passati tra impegni nel volontariato e uno straordinario pellegrinaggio a Santiago di Compostela.
 
Dal 30 maggio scorso è presidente di Agenas che, quasi in coincidenza con la sua investitura, è oggi dotata di un nuovo statuto che ha ampliato le competenze del presidente riservandogli in particolare quella dei rapporti istituzionali. In altre parole il compito di tenere i rapporti (non sempre lineari) tra i due “azionisti” di Agenas, Regioni e Ministero della Salute.
 
Un ruolo nel quale Bissoni si è gettato con l’abituale professionalità e generosità e soprattutto, per chi lo conosce non è una novità, mantenendo una chiara e netta autonomia di pensiero. E proprio su quest’ultima dote contiamo per cercare di ragionare a fondo sul momento particolare che sta vivendo il “regionalismo”, caratterizzato da una repentina perdita di appeal, a seguito di scandali incredibili (tra tutti il caso Fiorito nel Lazio) ma anche da un’oggettiva crisi delle autonomie, sempre più sotto stress e costrette a ridurre anno dopo anno i propri budget in tutti i campi di intervento. A partire dalla sanità, stretta da un definanziamento senza precedenti che priverà i servizi sanitari regionali di più di 30 miliardi da qui al 2015. Ma in questa intervista abbiamo parlato anche dei nuovi standard ospedalieri e del destino delle farmacie dei servizi, previste da una legge dello Stato ma, di fatto, rimaste al palo.
 
Presidente Bissoni, possiamo dire che siamo a un giro di boa per la lunga stagione del federalismo all’italiana?
Ben venga un giro di boa. Anche perché fino ad oggi il federalismo ha vissuto una crisi d’abbandono, parafrasando una lucida definizione di Vasco Errani di qualche tempo fa.
 
Cioè?
Dal 2001 ad oggi, da quando è stata varata la riforma del titolo V della Costituzione ridefinendo gli ambiti di competenza legislativa di Stato e Regioni, si è verificato uno strano connubio tra una visione mistica ed enfatica del federalismo ispirata dalla Lega e quella di segno opposto, ma stranamente convergente, di chi (in primis Tremonti) vedeva nel federalismo un’occasione per scaricare lo Stato di una serie di rogne, sanità in primis. Da qui questo strano “federalismo d’abbandono” avvertito in tal senso soprattutto dalle Regioni più deboli e meno attrezzate che invece avrebbero avuto bisogno di una diversa attenzione nella fase di transizione del federalismo.
 
Mi sta dicendo che sarebbe stato più opportuno un federalismo a “due velocità”?
No. Nella riforma del titolo V è ben chiaro che allo Stato spetta il compito ultimo di garantire che i livelli di assistenza sanitaria siano erogati in tutto il Paese. Ciò che intendo quindi è che lo Stato aveva il dovere e i relativi strumenti, che infatti ha usato sul piano delle emergenze finanziarie, per accompagnare il processo di federalismo, intervenendo anche con il commissariamento, ove necessario. I commissari, gli stessi Presidenti delle Regioni, e ora il dott. Bondi, sono arrivati ma a loro è stato chiesto prioritariamente di far quadrare i conti, senza la stessa attenzione a cosa accadeva sul piano della qualità e dei diritti dei cittadini. Quindi nessun doppio binario ma un’applicazione piena del federalismo, dove ognuno faccia fino in fondo la propria parte. Stato “garante”, compreso.
 
Ritiene che il ddl di riforma costituzionale messo a punto dal Governo Monti vada in questa direzione?
Come sa la sanità non è toccata direttamente da quel disegno di legge. Resta infatti materia di legislazione concorrente. Anche se il principio base del ddl, laddove si prevede una sorta di primato erga omnes delle leggi statali in nome degli interessi nazionali potrebbe, se fosse applicato in maniera disinvolta, costituire di per sé una generalizzata supremazia legislativa in capo al legislatore nazionale su tutte le materie, comprese quindi anche quelle sanitarie che potrebbero restare concorrenziali solo in teoria, mantenendo perciò inalterato il contenzioso istituzionale di questi anni.
 
Si è detto che tale salvaguardia sia stata prevista proprio per evitare il continuo contenzioso tra Stato e Regioni.
Capisco, ma il dubbio che si possa però subordinare de facto la potestà legislativa regionale favorendo al contrario il riemergere di un centralismo statale in tutte le materie c’è. Per questo suscita riserve questo disegno al quale, va detto, manca poi, ancora una volta, il tassello fondamentale che potrebbe contemperare quel rischio e cioè la previsione di quella Camera delle Autonomie che completerebbe il nuovo quadro costituzionale della Repubblica e che, dovrà trovare risposta in una compiuta e coerente riforma costituzionale.
 
Quindi federalismo avanti tutta?
Penso che una riflessione sull’esperienza fatta sia doverosa ma che non si debba tornare indietro. Ma penso anche che la crisi indubbia di appeal del federalismo, cui lei accennava poco fa, esista, ma sia essenzialmente dovuta non al federalismo in quanto tale ma alla crisi politico-istituzionale tout court del Paese, e a cui i vari Fiorito hanno dato il colpo di grazia. Di fronte a una crisi di credibilità della politica come quella che stiamo vivendo non si poteva immaginare che il livello regionale del “Palazzo” non finisse anch’esso sotto scacco. Ma le Regioni hanno ancora molto da dire, soprattutto se, come ho detto, si riuscirà ad applicare appieno la riforma del titolo V, senza abbandoni di sorta e nella consapevolezza che la sanità, nel nostro Paese, ha tradizioni profonde nelle realtà locali e regionali ben prima del Titolo V .
 
Passiamo ad altro. La sostenibilità del sistema sanitario. Le Regioni denunciano che tra manovre, spending review e quant’altro il Ssn è stato scippato di più di 30 miliardi dal 2001 al 2015. Che ne pensa?
Intanto che non parliamo d’altro. I due aspetti, quello delle regole, dei contesti istituzionali e quello del finanziamento alla sanità, si intrecciano in modo ineludibile. Mi spiego. Se ragiono in termini di autonomia e di responsabilità delle Regioni per la gestione dei servizi sanitari (che sono poi il cuore del federalismo sanitario), è evidente che il nodo del finanziamento al sistema non può essere gestito unilateralmente dal livello centrale. Di qui i vari Patti per la salute che avevano contemporaneamente obiettivi finanziari ed assistenziali. La caratteristica delle ultime manovre, in nome di un’emergenza finanziaria certamente reale gravissima, è invece quella di operare con tagli lineari che colpiscono tutte le Regioni allo stesso modo, indipendentemente dalla loro situazione interna. Se ad esempio stabilisco che la spesa per beni e servizi debba essere tagliata di 10 euro, si potrebbe verificare che alcune realtà abbiano anche margini superiori di riduzione delle inefficienze e di ottimizzazione degli acquisti. Ma in altre realtà quei 10 euro da tagliare potrebbero risultare insostenibili perché negli anni passati, senza alcuna imposizione esterna, si era già provveduto a ridurre inefficienza e sprechi. Federalismo e politiche finanziarie si intrecciano e, soprattutto in tempi difficili, andrebbero gestite con una visione politica chiara e unitaria tra Stato e Regioni. Di fronte alla crisi oggi sembra prevalere, per l’intero sistema, quella visione economicistica della sanità, riservata fino a ieri alle Regioni con piano di rientro, che potrebbe preludere di fatto, ad un prossimo ripensamento dello stesso modello di sanità pubblica che conosciamo e che, nonostante tutto, ha retto.
 
Mi faccia capire, teme che si stia pensando a smantellare il Ssn?
Smantellare no, ma l’idea che si possa ridimensionarlo sul piano delle prestazioni o dell’universalità è senz’altro presente in molte componenti dell’establishment economico-finanziario. Del resto non sono idee nuove. Un tentativo del genere si era già concretizzato nel governo Amato del 1992 e ventilato ripetutamente negli anni successivi. Poi tutto è sempre rientrato, ma l’idea che con questa crisi non possiamo più permetterci la sanità per tutti sta riemergendo. Il Ministro Balduzzi ha fortunatamente sempre respinto con forza questa ipotesi, non con la stessa forza altri membri del Governo. Ma che succederà nel 2013 se tutte, o quasi, le Regioni dovessero maturare disavanzi? Consiglio in proposito la lettura di un bel libro di Federico Rampini, proprio su questo tema e sul confronto Europa-Usa. Un’analisi lucidissima, non ideologica ma basata su dati e fatti concreti che dimostra ancora una volta come i sistemi di welfare, sanità compresa, di tipo pubblico e universalistico e basati sulla fiscalità generale, costino di meno e funzionino meglio dei vari sistemi privati o paraprivati. Detto questo, come è noto, ma è forse bene ribadirlo, la sanità italiana costa meno degli altri sistemi sanitari europei a noi paragonabili per dimensioni e caratteristiche almeno laddove funziona e dà buona assistenza. Il vero problema resta sempre il rapporto con alcune importanti realtà territoriali del centro sud. Inoltre il comparto è senza dubbio quello della pubblica amministrazione che ha più innovato, come ha rilevato più di una volta la stessa Corte dei Conti.
 
E allora?
Allora occorre che si ritrovi la strada del dialogo tra Stato e Regioni su come far sì che anche la sanità offra il suo contributo alla crisi ma senza rischiare che tutti questi interventi possano avere ricadute negative sui livelli di assistenza. E non parlo solo dei beni e servizi. Basta pensare ai nuovi ticket per 2 miliardi che arriveranno dal gennaio 2014 e che avranno un impatto sui cittadini coinvolti anche più devastante di quello, giustamente tanto temuto, dell’incremento di un punto di Iva. Senza considerare come l’esperienza recente del super ticket da 834 milioni si sia addirittura tradotta in una perdita secca per le casse regionali, comportando la fuoriuscita dal Ssn di molte prestazioni specialistiche senza alcun risparmio per le Asl. Alcune Regioni hanno segnalato come siano mancate da un 30 a un 50 % delle maggiori entrate previste. Così come è difficile pensare che 6 miliardi di risparmi sul personale non avranno conseguenze sul clima aziendale, sulla disponibilità al cambiamento, sulla qualità del servizio. Recuperare un’intesa Stato Regioni deve servire anche a rendere realmente fattibili gli interventi previsti ed evitando, o contenendo, gli effetti indesiderati.
 
Sul tema della sostenibilità della sanità è intervenuto anche il Presidente Napolitano, sostenendo che il Ssn è “compatibile con una prospettiva di maggiore selezione e contenimento della spesa pubblica”. E’ d’accordo?
Il Presidente ha innanzitutto ribadito come la scelta del SSN fatta dal Paese 34 anni fa sia stata una scelta di civiltà che va difesa innovandola e ricercando la massima efficienza in particolare oggi di fronte alla grave crisi economica-finanziaria del Paese. Come non essere d’accordo con queste affermazioni? Anche se alcuni commentatori mi sembra stiano utilizzando le dichiarazioni del presidente della Repubblica a sostegno di tesi meno convinte del grande patrimonio del Ssn. Detto ciò, spetta poi a tutti i soggetti coinvolti fare della crisi una opportunità di cambiamento, definire i processi concreti di innovazione ed efficientamento, sapendo che abbiamo anche una certa “esperienza in materia”, senza la quale difficilmente oggi potremmo dire di avere, in molte parti del Paese, un servizio di valenza europea e a costi più bassi. Ciò detto, non conosco alcun servizio sanitario che non sia alle prese con temi quali appropriatezza ed innovazione. Ciò che si è rotto è la fiducia negli attori di questo processo. Sicuramente ci saranno atteggiamenti di conservazione, tesi ad enfatizzare le difficoltà ma, dall’altro lato, una eccessiva semplificazione non aiuta a superarli. 
 
In questi giorni si sta discutendo del regolamento ministeriale che fissa nuovi standard per gli ospedali. Le sue valutazioni.
Ridefinire la rete ospedaliera nazionale al 3,7 per mille è un obiettivo condivisibile ma non per questo meno complesso e ambizioso. Ci collocheremo fra i Paesi europei più “parsimoniosi” e con servizi territoriali non sempre all’altezza. Accompagnare questo processo con nuovi e rigorosi indicatori di riferimento per l’attività ospedaliera è, quindi, senz’altro utile. Ci sono alcune indicazioni puntuali che andrebbero riviste, dalla rigidità della scala gerarchica fra ospedali che rischia di contraddire il concetto di rete, a norme diverse fra pubblico e privato che rischiano un contenzioso giuridico-amministrativo, ma in particolare occorre salvaguardare l’autonomia operativa regionale.
 
D’accordo. Ma se quegli indicatori fossero validi, come ad esempio, quelli che fissano soglie minime di attività e di performance, perché non renderli cogenti per tutti?
Non è un problema, ancora una volta, di difesa aprioristica di competenze, ma di contemperare nel concreto una condivisibile riscoperta attenzione alla programmazione sanitaria, indirizzi rigorosi ed innovativi quali la ridefinizione dell’ospedale, bacini di riferimento, volumi ed esiti, con ciò che di buono si è costruito in questi anni nel rispetto dei rapporti territoriali, di relazioni complesse come l’integrazione con le sedi universitarie, gli Irrcs ecc., non riconducibili semplicisticamente a difesa del localismo o tanto peggio del lobbismo. Penso che il Ministro per primo sia consapevole che occorre evitare, in materia tanto complessa, ogni rischio di neocentralismo tecnocratico portando il sistema alla inerzia di fatto. O ancor peggio, fornire la base ad una nuova spending review. Dai costi standard basati sulle migliori esperienze regionali ai costi standard costruiti a tavolino, cioè su un mondo non reale.
 
Pensa che le Regioni approveranno quel regolamento? 
Le prime reazioni sono state piuttosto critiche ma anche consapevoli della necessità di un confronto di merito- e questo è positivo. Penso che un accordo sia possibile.
 
Un’ultima questione, di cui si parla poco ma che forse rappresenta una delle tante stranezze della sanità italiana. Pochi giorni fa è stato varato definitivamente il decreto Balduzzi e il suo riordino delle cure primarie. Come mai, secondo lei, non c’è alcun accenno alla farmacia dei servizi che pure rappresenterebbe una reale opportunità di implementazione della rete di assistenza territoriale potendo contare già su 20mila “punti salute” sparsi in tutta Italia?
Considero da sempre la farmacia come un presidio del Ssn. E’ importante perché diffuso capillarmente sul territorio, di facile accesso con personale preparato e non solo dispensatore di farmaci. La farmacia dei servizi rafforza questo ruolo. Il problema della loro mancata attuazione sta nel fatto che da qualche anno la farmacia è entrata nell’orbita di provvedimenti, condivisibili o meno, esclusivamente nazionali. Così è stato per le liberalizzazioni e così è ora per individuare il nuovo sistema di remunerazione. Provvedimenti che hanno posto in secondo piano le Regioni, le uniche nelle condizioni di dare concretezza alla farmacia dei servizi, valorizzando le tante esperienze in corso: dalla partecipazione alle campagne di informazione e di screening, alle prenotazioni di esami e prestazioni specialistiche, alla “distribuzione per conto”. Naturalmente, come sempre accade, mettere un cappello omogeneo su cose già in atto è difficile, ma l’unica strada è riprendere il percorso per il rinnovo di convenzioni ferme da anni ribadendo la scelta qualificante, per il SSN, del ruolo delle farmacie e facendo tesoro delle esperienze che in questi anni si sono sviluppate.
 
Cesare Fassari

12 novembre 2012
© Riproduzione riservata

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