Il commento. Medico e paziente. Quando a vincere è la sfiducia
06 DIC - Che la rissa potesse passare dalla sala operatoria alla sala d’attesa antistante era facile prevederlo. E infatti dopo i casi, qualcuno vero qualcuno inventato, di spintoni e schiaffoni tra medici davanti al lettino operatorio, arriva adesso da Roma la notizia di un’aggressione allo staff chirurgico da parte dei parenti in attesa di informazioni sul loro congiunto sotto i ferri.
Quanto accaduto al San Filippo Neri, un ospedale della capitale tra l’altro considerato di buona qualità generale, ha mostrato in tutta la sua brutalità la fine di un’epoca . Quella illustrata da tante immagini cinematografiche e televisive, con parenti e amici in ansia davanti al vetro del corridoio di accesso alle sale operatorie. In attesa di una notizia, di una rassicurazione, mentre la vita del loro caro era nelle mani del chirurgo della provvidenza.
La maggior parte delle volte quei volti tesi ce li hanno fatti vedere improvvisamente distesi, sollevati, di fronte alla faccia stanca del medico con la mascherina abbassata che, con poche parole nette, diceva “E’ vivo, respira, il cuore ha retto. Ce la farà”.
Ma altre volte la scena era diversa. Dalla tensione si passava alle lacrime e alla disperazione, perché in quei casi lo stesso camice verde o azzurro con la mascherina abbassata, diceva “Abbiamo fatto il possibile e anche di più. Ma non c’è stato niente da fare. Coraggio”.
In quelle immagini lo specchio implacabile del destino. Vita o morte. Ma i due antipodi trovavano un filo narrativo comune negli atteggiamenti, nel rispetto, nella fiducia verso i sanitari. E, soprattutto, la consapevolezza che la morte poteva arrivare, Poteva portarsi via tuo figlio, tua moglie, tua madre. Era l’accettazione della vita e quindi della morte.
Oggi quanto accaduto a Roma ci dice che non è più così. Davanti a quei vetri opachi dei corridoi delle sale chirurgiche, dove ci fanno aspettare che l’operazione abbia termine, la tensione è la stessa ma i sentimenti e i pensieri no. Oggi comanda la sfiducia, la rabbia, la non accettazione di un verdetto infausto. La convinzione che quei camici verdi o azzurri se ne freghino di noi e soprattutto anche di chi stanno operando.
E così, quando arriva la notizia che temevamo nel nostro intimo, e che mai avremmo voluto sentire, scatta qualcosa di brutale. Di incontrollabile. Chi abbiamo davanti non è più un medico o un infermiere che ha tentato di salvare la vita al nostro parente o amico. E' un carnefice, un incompetente, uno che “se ne frega”.
Le ragioni di questa involuzione sono diverse. Alcune semplici da spiegare, come la perdita di quell’alone di supremazia intellettuale che il medico ha mantenuto per secoli di fronte ai propri pazienti, quasi tutti, indipendentemente dalla classe sociale di provenienza, completamente ignoranti rispetto all’ars medica. Altre frutto del paradosso per cui, più siamo informati sulla nostra salute, più diventiamo scettici verso la cura e le terapie prescritte. Altre, probabilmente figlie del generale declino della fiducia verso tutto ciò che è istituzione e il medico, come l’ospedale che lo ospita, sono due grandi istituzioni del Paese. Altre non sono che il risultato dell’incapacità di comunicazione tra medico e paziente che resta uno dei punti fragili di quell’alleanza terapeutica cui ci si vorrebbe ispirare per cambiare il volto della medicina, umanizzandola, rendendola sempre più vicina e accogliente, anche nelle tragedie e nelle scelte difficili.
Resta il fatto che, come spesso accade, la brutalità dei fatti vale più di mille parole. Il termometro della relazione medico paziente non è forse mai sceso così in basso. E non sta certo al paziente far risalire la temperatura a livelli più accettabili. L’unico che può farlo è il medico. Nella sua individualità e nella sua dimensione professionale e ambientale.
Cesare Fassari
06 dicembre 2010
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