La comunicazione medico paziente non è un “optional” formativo
23 FEB -
Gentile Direttore,
mai, come in questo periodo pandemico, ci si è resi conto di quanto la comunicazione medico paziente sia fondamentale. In realtà il tempo ad essa dedicato è considerato, a buon titolo, “tempo di cura”, come stabilito tra l'altro dalla legge sul consenso informato, perché strettamente collegato allo stabilirsi di un’“alleanza terapeutica” foriera di malati correttamente informati, consapevoli di percorsi di cura anche complessi, malati letteralmente “guidati” nei vari momenti della loro patologia, tra momenti di acuzie e di cronicità.
Una presa in carico del bisogno non può e non deve prescindere mai dal fornire informazioni, il più possibile corrette ed accessibili, al paziente e/o ai suoi congiunti, ove necessario, sia per doveri etici quanto anche e soprattutto per motivazioni di tipo economico organizzativo.
Gli studi della Prof.ssa
Wendy Levinson, in nord America, più di 20 anni fa, hanno incontrovertibilmente dimostrato che un buon rapporto del curante col paziente mette al riparo da contenziosi, prevenendo, al contempo, episodi di violenza ed intolleranza nei reparti, evitando percezioni negative sul clima lavorativo e sull’affiatamento del team assistenziale, tutti elementi che fanno calare significativamente la qualità percepita nelle sedi di cura, anche indipendentemente dalla valenza tecnico professionale espressa da ogni struttura e dai suoi operatori. Negli Stati Uniti è prassi, prima di assumere medici in strutture assistenziali, chiedere certificati che attestino la frequenza di corsi specifici (c.d. di “bed manners”) proprio per ridurre i contenziosi ed assicurare ambienti lavorativi che affianchino all’alta professionalità un clima friendly, sereno, a beneficio di pazienti ma anche di operatori, prevenendo anche episodi di burn out.
Essendo tra i docenti del Master in Management Sanitario di II livello dell’Università degli Studi “Federico II” (Modulo Comunicazione), da diversi anni vengo chiamata a svolgere su questo tema attività didattiche di elezione (quindi facoltative) presso entrambi gli Atenei napoletani, per i primi anni dei Corsi di Laurea, sia in Medicina e Chirurgia che in Scienze Infermieristiche.
Nella mia piccola esperienza ho notato che i giovani, i futuri curanti, sono molto interessati all’argomento “comunicazione col malato” ed affollano convinti le aule dove si tengono questi seminari “teorico pratici”, soprattutto per assistere ai role-playing, per loro particolarmente importanti, in quanto vi si rappresenta il “come fare nel caso che...”. Riescono così ad apprendere, da chi è medico da anni, quale tipo di approccio risulti più funzionale in situazioni routinarie (ambulatori, corsie) ma anche, e soprattutto, in situazioni più complesse, come in ambito emergenza, in campo oncologico, disabilità, infertilità, e riflettono su come parlare all’anziano, al bambino, al congiunto, ove necessario.
Laurearsi in medicina affiancando all’apprendimento delle scienze mediche anche un apprendimento sul modo corretto di relazionarsi col paziente, con modalità basate su esperienze ed offerto sia da chi ha un solido vissuto in ambito assistenziale oltre che da professionisti psicologi ed esperti in comunicazione sanitaria, credo sia un aspetto importante, se non fondamentale.
Consapevole che forse, a macchia di leopardo, corsi simili possano essere presenti in molti Atenei, ritengo in ogni caso che la comunicazione medico paziente non debba essere insegnata solo in corsi “facoltativi”, con contenuti non condivisi a livello nazionale, senza la previsione di un esame di profitto, teorico pratico, che di fatto verifichi, per tutti i futuri medici, al di là della preparazione “tecnica”, anche quella relazionale.
Ben vengano i test di ammissione a medicina, sui quali personalmente dissento, ma credo sia molto più importante assicurarci, per il futuro, di formare medici empatici e consapevoli di curare, più che malattie, persone malate, con il loro bagaglio umano, familiare, di contesto, dal quale non prescindere mai.
Un mio maestro, del secolo scorso, disse una frase ad una lezione di Clinica Medica che non ho mai dimenticato: “Ricordate che prima di curare una qualsiasi malattia dovete ascoltare e capire il paziente che ne soffre”. Queste parole sintetizzano un modo olistico di presa in carico del bisogno, parlano di appropriatezza delle cure, di rispetto della persona, di lotta contro un nemico che può annidarsi in modo totalmente differente, a seconda dell’essere umano su cui impatta. Come succede oggi, purtroppo. In questi 38 anni di professione ho conosciuto lottatori nati ma anche anime fragili, e ciascuno di loro ha condiviso con me il suo umano disagio, prima che la sua sofferenza fisica.
Uno studente anni fa scrisse sul suo questionario di gradimento formativo: “In questa giornata ho capito perché voglio ‘essere’ medico, prima ancora di ‘farlo’. La lezione di oggi per me è stata un dono”. Ecco spero che il Ministero dell’Università e Ricerca, il Ministero della Salute e singoli Atenei comprendano che è arrivato il momento di rendere “strutturale” nella formazione del medico la comunicazione col malato, con programmi sperimentali poi da stabilizzare.
Lo chiedono non solo i pazienti, ma i tanti studenti con i quali ho avuto la fortuna di potermi confrontare. Ascoltiamoli.
Rosa Ruggiero
Dirigente medico ASL Napoli 1 Centro
Docente Master Management Sanitario II livello
Università degli Studi “Federico II” di Napoli
23 febbraio 2021
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