La gestione dell’innovazione terapeutica nell’ambito dell’osteoporosi e della fragilità ossea. È stato questo l’argomento al centro del primo incontro virtuale di una serie di tavoli regionali organizzati da Fondazione Charta, con il contributo non condizionante di UCB, dal titolo “Open discussion sul valore delle nuove terapie farmacologiche nel trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura”. Il convegno ha voluto affrontare la tematica in Regione Campania e ha visto la partecipazione di Achille Caputi, Professore ordinario Farmacologia, Università di Messina; Paolo Cortesi, Farmaco-Economista, Università degli studi Milano-Bicocca; Fondazione Charta; Fulvio Moirano, CEO, Fucina Sanità; Giovanni Iolascon, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”; Mariano Fusco, ASL Napoli 2 Nord; Carolina Di Somma, Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II; Giovanni Italiano, Reumatologo Azienda Ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano Caserta.
Per poter parlare di innovazione terapeutica e di costo efficacia è necessario inquadrare prima la patologia, le sue risultanze sul Servizio sanitario nazionale e sui pazienti ed i precedenti trattamenti. L'osteoporosi è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta ad un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. L’incidenza di fratture da fragilità (FF) aumenta con l’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura e in Italia si stima che l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le FF per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. Inoltre, l’effetto della terapia antifratturativa è tanto maggiore quanto maggiore è il rischio iniziale.
Si capisce bene quanto sia importante per questa patologia l’azione di prevenzione primaria e secondaria. Come precisato da Achille Caputi, il rischio di una seconda frattura osteoporotica aumenta durante l’intero follow up e il rischio rimane imminente anche negli anni successivi. Inoltre, nelle donne in menopausa, una frattura, indipendentemente dall’essere traumatica o meno, comporta un rischio aumentato di nuova frattura. Ecco perché è importante intervenire tempestivamente con una terapia farmacologica: “Se andiamo a considerare i trial clinici vs placebo o vs vitamina D, vediamo che qualunque trattamento oggi disponibile comporta una riduzione del rischio di rifrattura. Possiamo quindi dedurre – ha precisato Caputi – che i soggetti che hanno già subito una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture e che il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Inoltre, il rischio sembra elevato immediatamente dopo la prima frattura specialmente nell’anno seguente e tale condizione e rimane fino ai 10 anni successivi”. I farmaci che sembrano agire in modo più efficace nella prevenzione di una rifrattura “sono i farmaci anabolizzanti come la teriparatide o il romosozumab”, ha proseguito l’esperto.
Ma facciamo un passo indietro. “L’osso viene continuamente rimodulato: abbiamo due distinti meccanismi, uno di modellamento osseo in cui la formazione dell’osso inizia direttamente dagli osteoblasti su superfici quiescenti e poi abbiamo un rimodellamento osseo che inizia nel momento in cui l’osso comincia ad essere distrutto dagli osteoclasti”, ha spiegato Caputi. Questo meccanismo, che si ripete nel tempo, può subire modificazioni con il passare del tempo. La premessa è doverosa per inquadrare meglio l’argomento. Negli anni la ricerca scientifica è infatti riuscita ad intervenire, grazie a farmaci specifici, su questo meccanismo. Per molto tempo la cura dell’osteoporosi si è basata su una classe di farmaci cosiddetta ad antiriassorbimento, farmaci questi di prima linea che intervengono sugli osteoclasti e che riducono il rischio di fratture, ma che non intervengono sulla stimolazione degli osteoblasti e quindi sulla ricostruzione dell’osso. Con l’innovazione, grazie ai farmaci anabolici, siamo arrivati anche a questa nuovo approccio terapeutico. Il problema di questi ultimi è che “dopo aver eseguito una terapia con anabolici, sarà necessario un farmaco antiriassorbimento per evitare il declino della densità ossea”.
L’ultima frontiera dell’innovazione ci fa capire meglio quanto sia necessario un radicale cambiamento nel trattamento delle fratture da fragilità. “Nel processo di modellamento e rimodellamento dell’osso agisce anche la sclerostina, una glicoproteina prodotta dagli osteociti, la cui attività è quella di inibire l’attività degli osteoblasti. Bene, inibire con un anticorpo monoclonale la sclerostina porta naturalmente ad un aumento di formazione dell’osso”. Appare evidente quindi che “nei pazienti con rischio molto elevato (di rifrattura ndr), la terapia con farmaci ad attività anabolica o bone builder deve essere considerata di prima linea”, ha precisato Caputi. “Studi di comparazione tra farmaci anabolici/bone builder e anti-riassorbitivi suggeriscono inoltre di iniziare subito la terapia anabolica in questi pazienti ad alto rischio. Non solo, se confrontiamo i farmaci anabolizzanti con l’anticorpo anti-sclerostina, notiamo che quest’ultimo agisce molto prima ed in maniera molto più rapida con conseguente beneficio per i pazienti”.
Romosozumab “aumenta la produzione di matrice ossea da parte degli osteoblasti e il reclutamento di cellule osteoprogenitrici e riduce il riassorbimento osseo alterando l’espressione dei mediatori osteoclastici”, ha proseguito l’esperto. Inoltre, il farmaco è stato introdotto come prima scelta nella nota 79 dell’Aifa recentemente aggiornata, “sia per le fratture vertebrali o di femore sia per quelle non femorali e non vertebrali. È indicato per il trattamento dell’osteoporosi severa nelle donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura; la dose raccomandata è di 210 mg una volta al mese per 12 mesi e alla fine di questo trattamento devono seguire farmaci antiriassorbitivi come bifosfonati o denosumab”, ha spiegato Caputi.
A complicare il quadro di questa patologia, vi è un altro problema che è quello dell’aderenza e della persistenza al trattamento. “L’aderenza ai farmaci può influenzare i risultati di una terapia molto più di quanto non faccia la scelta del farmaco più appropriato”, ha specificato ancora il professore emerito. “Dai dati del rapporto dell’Osmed 2020 si evince che l’alta aderenza, cioè quella indispensabile affinché il farmaco funzioni, nei pazienti con età dai 45 anni in su, è del 67%. Ciò significa che noi abbiamo corca il 30% dei pazienti in cui il trattamento è inefficace a causa della bassa aderenza allo stesso. Inoltre, la bassa aderenza aumenta con l’età”. Guardando alla persistenza, “nella stessa fascia di popolazione, i dati Osmed ci mostrano come solo il 50% circa dei pazienti è persistente al trattamento dopo un anno. In ultimo circa l’80% dei pazienti con pregressa frattura non riceve alcuna terapia per l’osteoporosi”. La motivazione di questo comportamento è da ricercare in diversi fattori che, secondo Caputi, vanno da una scarsa consapevolezza che il paziente ha dei rischi in cui incorre interrompendo il trattamento o non essendo ad esso aderente all’informazione a volte carente dei medici.
Ad inquadrare bene il problema delle fratture e della fragilità ossea è Giovanni Iolascon che ha ripercorso il lavoro fatto per la realizzazione delle Linee guida sulla “Diagnosi, stratificazione del rischio e continuità assistenziale delle Fratture da Fragilità” dell’Istituto superiore di sanità. “L’osteoporosi veniva ipertrattata nelle persone che non necessitavano di trattamento, ad esempio nelle donne giovani, mentre l’80% delle persone con frattura diagnosticata non veniva trattate nonostante la nota 79 dell’Aifa mettesse come obbligatorio un trattamento in questo caso”, ha spiegato Iolascon. Il focus delle linee guida è dunque la prevenzione secondaria “cioè intesa come prevenzione di una ulteriore frattura dopo la prima”. Ora, per frattura da fragilità si intende una frattura causata da un trauma a bassa energia. Questo concetto “è importante per gestire la fragilità scheletrica nella sua totalità”, ha proseguito Iolascon precisando però che la frattura non viene quasi mai definita come frattura da fragilità nonostante lo sia. “Questo succede perché non vi è una codificazione che identifica le fratture da fragilità”. L’auspicio, e le linee guida cercano di andare in questa direzione, è che si arrivi, da parte del Ministero, all’assegnazione di un codice per le fratture da fragilità in modo da indurre “necessariamente ad un percorso non solo di analisi della fragilità stessa, ma anche di un trattamento mirato”.
Altri punti cardine trattati nelle linee guida sono l’utilizzo di strumenti diagnostici e algoritmi per la valutazione del rischio, l’identificazione del paziente con rischio imminente di frattura e le strategie terapeutiche. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, nel caso dei pazienti con rifrattura, Iolascon ha precisato che “il trattamento anabolico dopo la prima frattura sarebbe necessario come primo trattamento per poi essere seguito da un trattamento antiriassorbitivo”.
A proposito di trattamenti, infine, non va dimenticato che per questa patologia “i farmaci efficaci ci sono e in alcuni casi, nel complesso, possono arrivare anche ad una efficacia del 50%, percentuale più elevata rispetto ad altre malattie croniche”, ha concluso l’esperto.
Il rovescio della medaglia dell’innovazione, quando si parla di terapie avanzate e di patologie croniche, sono inevitabilmente i costi. E anche qui torniamo alle fratture che, in ottica di carico economico dell’osteoporosi, rappresentano “l’impatto maggiore”, ha rimarcato Paolo Cortesi. Queste comportano dei costi “sia nel breve periodo, per la gestione della frattura stessa, sia nel lungo periodo per la gestione delle conseguenze. Naturalmente ci sono differenze a seconda del sito di frattura, con la frattura all’anca che rappresenta una delle sedi più gravi perché quasi sempre comporta ricovero”, ha proseguito l’esperto. L’ospedalizzazione è l’aspetto principale legato ai costi diretti a carico del Servizio sanitario nazionale. “Rispetto ad altri paesi europei, in Italia la durata media di ospedalizzazione è molto alta, attestandosi sui 19 giorni, con un costo medio per le fratture d’anca di circa 21 mila euro per paziente. Per quanto riguarda i costi associati alla frattura – ha specificato - in Italia parliamo di circa 9 miliardi e mezzo all’anno. Questi costi, facendo una stima, potrebbero arrivare a 12 miliardi nel 2030”. A questi costi si aggiungono quelli legati alla perdita di produttività dei soggetti con osteoporosi. Nonostante la maggior parte delle fratture da fragilità si verifichi in pazienti anziani, quando ciò avviene in età lavorativa, in Italia, si stima “che si perdano circa 95 giorni lavorativi per mille individui”. A ciò si legano anche i costi riguardanti l’assistenza del paziente da parte di famigliari e caregiver.
Migliorare la cura dell'osteoporosi puntando sulla prevenzione delle fratture e quindi ridurre i costi a queste associati sono una sfida complessa per i servizi sanitari, ma è anche una di quelle sfide che passa necessariamente dall’innovazione terapeutica. “Da uno studio svedese condotto su una sequenza di trattamenti basati sull’anticorpo monoclonale romosozumab”, ha spiegato Cortesi, “si evince una riduzione dei costi legati alle morbidità e alle ospedalizzazioni, un aumento di investimenti in termini di spesa farmaceutica a fronte però di un aumento di QALY, cioè anni di vita aggiustati in base alla qualità, e un aumento di aspettativa di vita.
“In merito a quello che è il possibile impatto sul budget in Italia, attualmente non ci sono valutazioni economiche pubblicate, ma esistono dei dati preliminari. Ad esempio in un’analisi condotta sullo switch tra romosozumab e teriparatide, si è stimato che il numero di pazienti target sia compreso tra i 28mila soggetti il primo anno e i 31mila al terzo anno di simulazione e che romosozumab possa portare ad un notevole risparmio di risorse”. Ecco perché, ha concluso Cortesi, “sono fondamentali approcci atti a prevenire le fratture per diminuire questo carico gestionale di risorse”.
Serve dunque un cambio di paradigma anche a livello organizzativo dall’alto. A ravvisare però qualche perplessità sulle effettiva possibilità di un cambiamento vero è Fulvio Moirano. Da sempre i decisori hanno posto la loro attenzione sul problema dei costi e della spesa e i 15,6 miliardi previsti per la Missione salute dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) non sono pochi. “Purtroppo molti di questi sono destinati all’edilizia e meno alla gestione ordinaria”, ha ricordato Moirano. “Sono previste un numero enorme di case della comunità, ma lo sforzo è sempre concentrato sulla salvaguardia di ospedali a volte anche inutili. Rimane invece una grande difficoltà nell’attivare una vera presa in carico del paziente a livello territoriale, al domicilio e in integrazione con l’ospedale”. Il rischio, dunque, è quello di non riuscire a realizzare tutte le case di comunità previste e quindi di non riuscire a prendere in carici “i circa 8 milioni di pazienti cronici con una sola patologia e i circa 5 milioni di pazienti con patologie multiple”, gruppo quest’ultimo in cui si possono inserire i pazienti con osteoporosi.
Rimane aperto un problema di governance. Nonostante nei primi 6 mesi del 2022 si siano sottoscritti i Contratti Istituzionali di Sviluppo previsti tra lo Stato e le Regioni, è necessario “un ripensamento di tutte le procedure sia per l’introduzione dell’innovazione sia per la gestione della quotidianità”, ha precisato ancora l’esperto. “Serve ora mettere in pratica ciò di cui si parla da anni”, cioè rendere concreti gli interventi sul territorio grazie al “DM 70 che razionalizzava la rete di offerta ospedaliera e che oggi vede congelata la sua revisione”, ha proseguito l’esperto. “Nel bilanciamento tra ciò che deve essere gestito dallo specialista e ciò che deve essere in continuità governato al di fuori si gioca la partita per colmare la differenza tra il dichiarato e l’agito”. La via da percorrere delineata da Moirano sarebbe quella di eliminare totalmente tutte le attività non necessarie all’interno dell’ospedale e attuare dei cambiamenti in discontinuità.
Per quanto riguarda la Regione Campania, “la frattura da fragilità a livello regionale ha un impatto, da un punto di vista di costo sociale, elevatissimo perché il soggetto con frattura non solo non produce ma richiede anche una serie di aiuti che vanno dalle risorse umane alle tecnologie, alla farmacologia”, ha spiegato Mariano Fusco. Per arginare il problema, a fronte del fatto che non esiste una codifica per la fragilità, serve ragionare in termini di prevenzione e mettere in campo una “importante azione di screening per trovare i fattori che creano la concausa per determinare una eventuale frattura”. Per fare questo il punto di partenza sono i medici di medicina generale per recuperare il sommerso. Per Fusco lo sforzo fatto per produrre le linee guida e l’elaborazione di PDTA sono importante ma, come sottolineato anche da Moirano, c’è “differenza tra dichiarato e agito e quindi lo sforzo vero è nell’organizzazione a tutti i livelli in cui l’ospedale deve essere solo la tappa finale del percorso. La battagli dunque si gioca sui fattori predittivi, sulla prevenzione della frattura, sull’educazione ai medici di medicina generale, sull’informazione alla famiglia e sul monitoraggio dell’aderenza in cui può svolgere un ruolo importante la farmacia di servizi”, ha concluso.
Come precisato anche da Carolina Di Somma la regione Campania “si è posta il problema della fragilità scheletrica. Ci siamo focalizzati sulla creazione di un PDTA sull’osteoporosi e ora siamo a buon punto per un percorso condiviso con altri specialisti, endocrinologi, reumatologi, ortopedici, fisiatri, medici di medicina generale e specialisti ambulatoriali sul territorio, sulla rifrattura”, ha spiegato. L’altro passo importante è il “recepimento della nuova nota 79 dell’Aifa da parte di tutti gli specialisti perché agire con un trattamento efficace da subito fa guadagnare tempo e migliora i costi prodotti dal paziente, anche futuri”. Infine anche per Di Somma è necessario intervenire sul grado di consapevolezza del paziente e, soprattutto, sull’informazione degli specialisti e del medico di medicina generale.
La conferma del fatto che è necessaria un’azione educazionale nei confronti dei medici arriva dal reumatologo Giovanni Italiano. “Nella pratica clinica – ha spiegato l’esperto – il reumatologo si occupa poco dell’osso e più del 50% non suggerisce nessuna terapia per proteggere l’osso quando usa, per esempio, i glucocorticoidi. Questo è un dato negativo perché pone in secondo piano una struttura che è lo scheletro che, in realtà, è disponibile a sacrificare sé stesso per mantenere l’omeostasi”. La riflessione va poi allargata a tutte le discipline in cui si fa uso di farmaci che impattano sull’osso perché questo “va preservato”.
“La regione Campania ha invertito la rotta sulla frattura di femore”, ma continuano a persistere delle difficoltà. “Il paziente con frattura di femore viene infatti trattato molto velocemente ma poi non viene seguito per il rischio di rifrattura”.
Anche per Italiano, i PDTA sono importanti ma, affinché questi siano poi utili, “servono le persone, dagli specialisti agli infermieri, che sanno come e quando intervenire”
Più scettico è invece sul coinvolgimento dei medici di medicina generale per quanto concerne i trattamenti. “Il futuro delle terapie, per diverse patologie, non solo per l’osteoporosi, è fatto di tanti anticorpi monoclonali”, ha spiegato l’esperto. “In questo contesto l’azione del medico di medicina generale sarà difficile perché non potrà far altro che suggerire il trattamento senza riuscire a gestire la quantità di farmaci anticorpi monoclonali”.
Marzia Caposio