07 AGO - Quando le agenzie di stampa hanno battuto la notizia nella notte di venerdì 27 luglio, si è scatenato il putiferio: “Il medico potrà prescrivere solo principi attivi quando sono disponibili farmaci equivalenti all’originale con brevetto scaduto”. Questa la novità introdotta quella stessa notte dalla Commissione Bilancio del Senato alla spending review e che ha provocato l’immediata alzata di scudi di Farmindustria e medici. Gli uni in difesa del brevetto, anche se scaduto, gli altri dell’autonomia di prescrivere il farmaco preferito (evidentemente di marca).
Poi sappiamo come è andata a finire. Nel maxiemendamento del Governo votato dal Senato martedì 31 luglio e poi dalla Camera il 7 agosto, resta il principio del “principio attivo” (scusate il voluto bisticcio di parole), anche se molto annacquato dalla possibilità per il medico di indicare, motivandola, il nome della specialità, con l’aggiunta della dicitura “non sostituibile”, già prevista dal decreto “Cresci Italia”.
Come la penso sulla battaglia dei generici avevo avuto modo di scriverlo nel gennaio scorso all’epoca di un’altra battaglia analoga, quella volta scatenata proprio dalla norma sulla “non sostituibilità” che ha trovato nuova conferma nella spending review.
Ne ribadisco per chiarezza due sintetici concetti. Non si capisce perché i medici non dovrebbero sentirsi tranquilli di curare i propri pazienti con il generico, visto che si tratta di un farmaco regolarmente autorizzato dalle stesse autorità pubbliche che autorizzano i branded, a meno di non avere informazioni tali che ne screditino l’efficacia e la sicurezza. In quel caso sarebbe doveroso renderle pubbliche, costi quel che costi. E poi siamo veramente convinti che indicare il solo principio attivo di un medicamento, il cui brevetto è magari scaduto da decenni e i cui effetti sono ormai studiati e analizzati da altrettanto tempo, costituisca un limite alla libertà di prescrizione? Mi sembra una asserzione alquanto debole.
Per quanto riguarda la protesta di Farmindustria, che si può comprendere se si considera il portafoglio delle aziende, essa si comprende molto meno nel merito, visto che proviene da aziende che dovrebbero sapere come funziona il mercato e la concorrenza. Mi piacerebbe che tanta energia fosse riversata nella richiesta di una diversa politica di incentivazione all’innovazione, piuttosto che a difesa di un mercato “vecchio” che, in quanto tale, è destinato per forza a perdere redditività.
Tutto ciò senza contare che gli italiani sembrano da tempo aver superato paure e dubbi sul generico, tant'è che gli ultimi dati Osmed riferiti al 2011 ci dicono che ormai più di un farmaco su due a carico del Ssn acquistato in farmacia (precisamente il 55,7%) è un generico. E allora di cosa staiamo parlando?
Detto ciò, vengo brevemente al merito delle questioni che vorrei trattare in questa nota. Come dicevamo la battaglia sui generici ha tenuto banco fino a oggi e non è un caso che i giornali ne abbiano dato un notevole riscontro in riferimento alle misure sanitarie della spending review. Giusto, così funziona la macchina delle notizie. Peccato che, nella loro corsa, le rotative si siano perse la vera notizia della spending review sanitaria che è quella di una nuova terribile mazzata sul Servizio sanitario nazionale. Che va ad aggiungersi all’altra mazzata predisposta dal precedente Governo (decreto “Tremonti” dell’estate 2011) e che scatterà dal 1 gennaio 2013. In tutto 6,8 miliardi di tagli dalla spending review (calcolati dal 2012 al 2015), più 7,9 miliardi del decreto Tremonti.
E sì perché in pochi, noi tra quelli, l’hanno notato, ma tra gli emendamenti approvati alla spending review c’è anche la sorpesa di un anno in più di tagli alla sanità, per un valore di 2,100 miliardi nel 2015, rispetto ai 4,7 miliardi 2012/2014, previsti dal decreto originale.
Tradotto in provvedimenti questo vorrà dire: meno posti letto, meno attrezzature mediche, meno farmaci, meno prestazioni specialistiche e più ticket. Altro che guerra dei generici (tra l’altro finita in una bolla di sapone). Qui in ballo c’è uno scossone tremendo ai bilanci regionali, dal quale le Regioni non sembrano però in grado di riprendersi, anche perché da parte del Governo la porta sembra definitivamente chiusa.
Dopo i tentativi reiterati di convincere Monti & C. a tornare sui propri passi e l’annuncio che a queste condizioni le Regioni il Patto per la Salute non lo firmeranno mai, l’unica cosa che hanno ottenuto è tre mesi e mezzo in più di tempo per ripensarci e sedersi al tavolo del Patto con la coda tra le gambe. Entro il 15 novembre 2012. Una bella vittoria!
Cesare Fassari
07 agosto 2012
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