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24 NOVEMBRE 2024
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Covid e Oncologia. Senza precise scelte politiche per l’organizzazione del territorio, impossibile dare gambe a una vera rete oncologica

Nel secondo Tavolo Interregionale di QS dedicato alla presa in carico del paziente oncologico, hanno discusso e approfondito sul tema i rappresentanti di alcune regioni del Nord Italia. Tra i punti di sostanza condivisi, l’allarme per lo scollamento tra territorio e ospedale che impedisce l’implementazione di una rete efficace di assistenza e presa in carico.

17 DIC - “La rete deve essere progettata, quindi va pensata; deve essere tesa, quindi ci vogliono dei punti su cui fissarla; deve essere interconnessa, quindi ci vogliono i nodi che servono a tenerla insieme; non deve avere maglie troppo larghe; deve essere elastica, quindi deve essere capace di adeguarsi a quelle che sono le necessità che si vengono a verificare di volta in volta. Infine bisogna monitorarla nel tempo”.

Questa definizione della rete Oncologica perfetta è ormai condivisa da tempo in ambito oncologico, ed è stata ricordata da Giordano Beretta, Presidente di Aiom, in apertura del secondo tavolo di confronto interregionale organizzato da Quotidiano Sanità, con il sostegno non condizionante di MSD sul tema della gestione del paziente oncologico nell’era Covid.
 
All’incontro virtuale che nell’ambito dell’intero progetto di approfondimento si avvale della Direzione scientifica dell’Associazione Periplo, hanno partecipato Paolo Pronzato, responsabile della rete oncologica regionale della Liguria, Marina Chiara Garassino, istituto Tumori di Milano, Vanessa Gregorc - Coordinatrice dell’area di oncologia dei distretti toraco Polmonare, UO Oncologia Medica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, Lucio Buffoni – Responsabile Oncologia dell’Humanitas Gradenigo Torino, Oscar Bertetto – in rappresentanza della regione Piemonte su delega dell’Assessore e Responsabile della Rete Oncologica di Piemonte e Valle D’Aosta, Davide Croce – Direttore Economia e Management Liuc e, come accennato in apertura, Giordano Beretta, Presidente Aiom e Resp. UO Oncologia Gavazzeni di Bergamo

Dunque sul tavolo di confronto le esperienze, le problematiche e le linee d’indirizzo dell’oncologia di Piemonte e Valle D’Aosta, Liguria e Lombardia che se da un lato godono di una dotazione strutturale ospedaliera molto robusta, dall’altro sono state anch’esse messe a dura prova dalla pandemia che ha esaltato chi ha maturato una grande esperienza nella costruzione e implementazione della rete oncologica, ma ha messo a dura prova la tenuta del sistema di chi, per la sanità del territorio, ha operato scelte di governance differenti. Se dunque la “rete perfetta” è quella simbolicamente illustrata da Beretta in apertura, la realtà è che reti oncologiche, completamente a regime in ogni loro componente, in Italia, almeno secondo quanto indicato dalla stessa Aiom in termini di requisiti indispensabili, ancora non ce ne sono. La punta di diamante, opinione condivisa da tutti, è senz’altro rappresentata da quella del Piemonte che tuttavia non si adagia sugli allori e cerca di migliorare la propria struttura e organizzazione nonostante anni ed anni di attività. Tra gli elementi qualificanti di una rete oncologica, ha infatti ricordato Beretta, deve esserci necessariamente un coordinamento centrale e dei punti di accesso.
 
“In Italia ci sono delle reti oncologiche molto efficienti da un certo punto di vista ma che mancano completamente di punti di accesso” ha osservato il Presidente Aiom. Il punto di accesso è un punto periferico vicino al domicilio del paziente che gli consente di entrare nel percorso della rete, dove trova una cabina di regia locale che lo indirizza nei vari nodi della rete in funzione delle sue necessità e che poi è in grado di seguirlo e di fargli fare, vicino a casa, ciò che si può fare vicino a casa o più lontano avendolo indirizzato a strutture di riferimento di alta specializzazione, per quello che non può essere fatto vicino a casa”. In sostanza è la porta di accesso a un percorso all’interno del quale il paziente non si deve più preoccupare di niente perché è l’organizzazione che si preoccupa per lui accompagnandolo passo dopo passo. Al suo interno la rete deve essere multidisciplinare ma anche multiprofessionale, quindi non ci vogliono soltanto i medici di specialità differenti ma ci vogliono figure professionali differenti in grado di lavorare insieme per il bene del paziente. Infine, deve avere un aggancio solido con il territorio e questa, forse, è delle note dolenti portate in evidenza dall’emergenza pandemica che, in molti luoghi, ha sopraffatto questa virtuosa dimensione dell’assistenza e della presa in carico”.

Il Territorio in Lombardia
“Quando gli oncologi parlano di queste cose si tende a dare la colpa ai medici di medicina generale” ha quindi sottolineato Beretta “che secondo alcuni non fanno quello che devono fare. In regione Lombardia però, faccio un esempio, c’è un decreto non ancora annullato, che vieta al medico di medicina generale che non fa parte delle USCA di visitare il paziente sospetto Covid. Il che significa che anche le istituzioni ci mettono del loro per complicare le cose dal punto divista organizzativo. Poi si chiede ai medici di medicina generale di fare i tamponi, ma dove? In quali strutture? Ci vuole una struttura che abbia un ingresso e un’uscita separati, che abbia personale infermieristico per poterlo fare, che abbia spazi per non creare assembramenti e, nella realtà, gli studi dei medici di medicina generale, tutto questo non l’hanno. Quindi, o questa procedura si organizza a livello distrettuale o non si riesce sostanzialmente a farla. Però” ha sottolineato il presidente Aiom nella sua disamina della situazione della governance del territorio in Regione Lombardia “in regione Lombardia i distretti chi li dirige? Le riforme regionali hanno fatto sì che si sia passati dalle ASL che controllavano il territorio, curavano la gestione dei medici di medicina generale e dei distretti, etc. alle ATS che sostanzialmente sono organi burocratici amministrativi di controllo e di gestione che però non hanno alcun controllo sui distretti che, invece, sono in carico all’ASST. L’ASST, Azienda Socio Sanitaria Territoriale è fatta dall’ospedale e dal suo territorio circostante. Nella prima ondata che ha travolto Bergamo il nostro ospedale è arrivato al 150% di occupazione dei posti letto con solo malati Covid. L’unica struttura che era rimasta aperta al di fuori dell’ospedale tutto Covid era il day hospital di oncologia e la dialisi che avevano per fortuna un ascensore separato e quindi si era creato di per se stesso un percorso indipendente. È pensabile che in una situazione come quella, l’ospedale Papa Giovanni XXIII che ha la responsabilità di tre distretti nel suo territorio di ASST avesse il tempo di pensare alla loro gestione? Il risultato è che i distretti non hanno svolto la loro attività di coordinamento del territorio con la struttura ospedaliera”.
 
Ha senso, con tali problematiche strutturali, ipotizzare di poter consolidare una rete oncologica in cui il territorio gioca un ruolo fondamentale? In teoria no ma, in pratica, qualcosa si doveva pur fare. “Nei percorsi elaborati da Aiom abbiamo cercato di utilizzare il buon senso. Per esempio trasformare le visite di follow-up in contatti telefonici. Sebbene né il telefono ma neanche la telemedicina più avanzata posso sostituire al 100% la visita di persona, abbiamo gestito circa mille pazienti in contatto telefonico in piena pandemia ma di questi, cento li abbiamo fatti venire lo stesso a visita, magari con qualche settimana di ritardo, perché il contatto telefonico non garantiva che le cose fossero davvero a posto”. Ma un altro grande problema in Lombardia è stato il blocco delle attività chirurgiche perché la Regione ha cercato di identificare degli Hub Covid free in cui mandare i pazienti che necessitavano di intervento chirurgico urgente. Una Mission davvero Impossible quando le sale operatorie sono state trasformate in terapie intensive egli anestesisti rianimatori erano tutti impegnati sul Covid… Passati i primi due mesi dopo la prima ondata l’attività di screening avrebbe potuto ripartire a pieno ma non è accaduto perché il personale amministrativo era impegnato nella gestione del trattamento dei contatti e non aveva tempo di mandare gli inviti ai pazienti. “Nella nostra esperienza” ha concluso Beretta “il Covid è diventato anche una sorta di alibi per non fare le cose. Oggi i mesi persi sono quasi dieci e dieci mesi persi vuol dire che qualche adenoma è diventato cancro e qualche T1 e diventato T2 e qualche T2 e diventato N+ e qualche N+ è diventato metastatico”.
 
“Il San Raffaele” ha quindi raccontato Vanesa Gregorc, UO Oncologia della medesima struttura “è stato identificato come un Hub Covid però ci hanno permesso di continuare a seguire pazienti oncologici e pazienti cardiovascolari e questo è importante anche per poter contestualizzare la nostra esperienza. Il San Raffele è un ospedale privato convenzionato, con Pronto Soccorso, che va a coprire l’urgenza di pazienti, anche oncologici non afferenti soltanto al nostro ospedale. È anche una struttura polispecialistica in cui è ben radicata la consapevolezza dell’importanza della mutlidisciplinarietà e multiprofessionalità ma è innegabile che, sebbene sostanzialmente sganciato dal territorio, se il nostro ospedale avesse fatto parte di una rete oncologica strutturata e non incompiuta come in Lombardia, avrebbe potuto operare con maggior sinergia. In qualche modo ci è venuta in “soccorso” la rete informale di Aiom perché gli scambi di opinione e i suggerimenti che hanno trovato circolazione in questo ambito sono stati estremamente utili. A cominciare dalle cose più pratiche che, in emergenza, potevano essere molto difficili da gestire come quelle contenute nelle indicazioni comportamentali per tutti i colleghi oncologi e che specificavano esattamente quello che doveva essere fatto per i pazienti: quindi i tamponi prima dell’ingresso, il triage telefonico, il triage prima dei prelievi, etc… Insomma, abbiamo cercato in tutti i modi di difendere il paziente oncologico e devo dire che siamo riusciti in grandissima parte perché siamo riusciti anche a monitorare quei pazienti che in qualche maniera perdevamo poiché una volta risultati positivi. Non nascondo la grande criticità che spesso diventava sconforto della mancata connessione con il territorio, perché fondamentalmente non avevamo a chi affidare un paziente oncologico Covid e quindi rimaneva in qualche maniera agganciato a noi in ospedale finché era possibile per poi, successivamente, finire in Pronto Soccorso. Può sembrare banale” ha quindi aggiunto Gregorc “ma un grande supporto è venuto dall’AIFA quando ha permesso di spedire i farmaci.
Eravamo arrivati al punto di consegnare il farmaco fuori dall’ospedale pur di non fare entrare i pazienti per proteggerli. Insomma” ha concluso Gregorc “sono stati compiuti diversi errori ma credo che per quanto riguarda l’area oncologica abbiamo fatto l’impossibile per tutelare i nostri pazienti e non parlo solo per il San Raffaele. Oggi però abbiamo più bisogno che mai di ridisegnare le reti e il rapporto tra territorio e ospedale. Il tutto condito da una robusta iniezione di telemedicina, anche se non sostituirà mai il rapporto personale col paziente”.
 
L’ultima testimonianza dalla Lombardia è venuta da Marina Chiara Garassino, Istituto tumori di Milano, secondo cui “i malati di cancro, dobbiamo dirlo con onestà, per quanto riguarda l’accesso alle rianimazioni sono stati malati in qualche modo di serie B. E non lo dico perché è un mio pensiero ma perché in questo ambito abbiamo raccolto dei dati. Mi occupo di tumori del polmone e abbiamo raccolto in tutto il mondo una casistica che ormai è di circa 1.400 malati che hanno avuto il Covid. Ebbene, soltanto il 5% di questi ha avuto accesso alle terapie intensive. Sebbene questi dati non riguardino il nostro paese, sicuramente ci deve essere maggiore chiarezza anche nel percorso rianimatorio del paziente oncologico Covid positivo. Penso che nessuno di noi lotterebbe per avere un posto in rianimazione per un malato di 80 anni in terza linea con il tumore del polmone ma in alcune tipologie di pazienti invece, nel non candidarli a un trattamento di tipo rianimatorio, li condanniamo in qualche modo a morte. Questa è una patologia, insieme a quelle ematologiche, che ha una mortalità particolarmente alta e quindi su questo tipo di patologie bisogna invece creare dei percorsi il più puliti possibile educando al contempo i pazienti al massimo rispetto di ogni misura di protezione. Infine” ha concluso “se è vero che da un lato la mancanza del territorio è una condizione pesante in termini di assistenza e presa in carico, di contro registro con grande rispetto e soddisfazione la capacità di noi specialisti di unirci e di aiutarci anche su come organizzare, per esempio, la vita dell’ospedale in costanza di pandemia. Insomma, dove non è arrivata la parte normativa è arrivata la solidarietà tra colleghi e credo che sia stata una testimonianza sotto certi aspetti sensazionale”.
 
Il successo della Rete Piemonte - Valle D’Aosta
Appare molto distante da quella lombarda, l’esperienza della Rete oncologica di Piemonte e Valle D’Aosta che è tutt’ora un po’ il modello di riferimento di riferimento per tutti. A cominciare dai punti di accesso che, sebbene non ancora diffusi su tutto il territorio, costituiscono un importante presidio per la presa in carico del paziente oncologico al di fuori del pronto Soccorso e, comunque, nelle disponibilità di indicazione di un qualsiasi clinico a cui viene un sospetto diagnostico di tumore (dal dermatologo al gastroenterologo, allo stesso medico di famiglia).

“In ognuno dei quarantadue Centri Accoglienze e Servizi della Rete del Piemonte più uno in Valle d’Aosta” ha spiegato Oscar Bertetto, Responsabile della Rete del Piemonte “esistono cinque figure professionali ben precise: il medico, l’infermiere, l’amministrativo, l’assistente sociale e lo psiconcologo. È chiaro che con un impianto di questo tipo si comincia a poter ragionare di riuscire a salvaguardare certi percorsi per il paziente oncologico”. Ma anche in Piemonte l’emergenza pandemica ha colpito duro e alcune possibilità non sono state esercitate poiché non rientranti (ancora) nei margini di autonomia auspicati per la stessa rete. “La rete” ha spiegato Bertetto “non è stata in grado di fare alcune cose perché non è stata dotata da parte della Regione della sufficiente autonomia di governance in alcune situazioni. Come, per esempio, quella di poter dirottare i pazienti altrove quando l’ospedale che si ha alle spalle non regge più perché è diventato tutto un ospedale Covid. In buona sostanza quello che in Piemonte non ha funzionato è dipeso dalla mancata comprensione che bisognava diversificare le strade in modo che alcuni ospedali rimanessero Covid free e alcuni ospedali fossero invece Covid e che la rete, conoscendo quali erano i reparti di oncologia Covid free e quali erano i reparti di oncologia con malati Covid al loro interno, quali erano le chirurgie che potevano continuare a operare e quelle che invece erano state fermate perché le loro sale operatorie erano state trasformate in reparti per le terapie intensive, avrebbe potuto benissimo gestire direttamente questi flussi diversificati. Una rete ha senso se è in grado di collegare tra di loro le strutture di riferimento e i presidi sul territorio ma anche di poter spostare rapidamente i pazienti e, se occorre, il personale tra un nodo e l’altro nel momento in cui qualche parte si trova in emergenza, anche di tipo epidemico. Il Covid ci ha insegnato che non può esistere una medicina senza territorio” ha quindi precisato Bertetto. “Ci ha insegnato che uno degli errori che è stato fatto in Lombardia, in Piemonte e in molte Regioni italiane è stato quello, usando una metafora, di pensare solo al reparto dei Grandi ustionati di fronte a un incendio. Ma l’incendio se non pensiamo a mandare dei pompieri esperti, attrezzati, con i bocchettoni a cui attaccare gli idranti già pronti e funzionanti sul territorio, non lo spegneremo”.
 
Torna, ancora una volta e con prepotenza la necessità di attenzione al territorio che tuttavia, nella vision della rete piemontese, è ancora più articolata. “Il futuro dell’oncologia” ha spiegato in tal senso Bertetto potrà essere guardato con fiducia solo se noi riusciamo a capire che tra la domiciliarità e gli ospedali devono esserci delle strutture intermedie. Queste strutture intermedie dovranno essere dotate di alcune attrezzature che consentano diagnostica, stadiazione delle malattie, follow-up, gestione di eventuali tossicità o semplicemente gestione dei sistemi venosi impiantabili, gestione di alcuni prelievi. Un po’ come avvenne negli anni Sessanta con i dispensari antitubercolari in cui, per capirci, c’era la possibilità di fare radiografie e broncoscopie. Strutture intermedie strutturate, organizzate e dotate di personale infermieristico e medico. È chiaro che le reti possono essere una soluzione e contribuire a realizzare tutto questo disegno” ha concluso Bertetto ”ma l’altra grande carenza che ancora abbiamo tutti è che rete significa anche e soprattutto connessioni. L’altra metafora che io spesso uso per descrivere le reti oncologiche dal punto di vista della loro funzionalità è che devono essere pensate un po’ come le reti neuronali che abbiamo nel nostro cervello. Nel cervello abbiamo molti centri ultraspecialistici come quello dell’udito, quello dell’olfatto, quello dell’odorato, nelle reti abbiamo dei centri per i tumori del pancreas dei tumori del torace, etc. Insomma tutto quello che rappresenta una rete oncologica, tanti centri specializzati, tanti nodi importanti a cui far riferire i pazienti. Ma nel nostro cervello tutti quei centri non saprebbero fare alcunché se non fossero collegati tra di loro e se non fossero collegati al resto del sistema nervoso centrale. È stato un atto di presunzione pensare che i centri di riferimento oncologici potessero vivere in un loro isolamento senza interconnettersi fortemente tra di loro e con il territorio perché è il passaggio d’informazioni e comunicazioni quello che rende forte una rete.
 
In ogni caso, nonostante le legittime autocritiche, “se in Piemonte non avessimo avuto una rete oncologica consolidata come ormai abbiamo da anni, che cosa ne sarebbe stato dei nostri pazienti oncologici?” Se lo è chiesto Lucio Buffoni, Resp. Oncologia Humanitas Gradenigo Torino “perché veramente, alla prova del fuoco, e qui posso confermare quello che è stato detto in precedenza, la Rete ha dimostrato di reggere molto bene mantenendo quella caratteristica di tempestività che è fondamentale in oncologia. Non l’urgenza, non l’emergenza ma la tempestività, questo ha funzionato perché è una rete che funziona da anni, perché è una rete che ha effettivamente dei veri punti di accesso che ormai sono familiari non soltanto ai medici di famiglia, che sono i nostri principali invianti, ma anche ad altre figure specialistiche che lavorano sul territorio. Lungi da me, ovviamente, ringraziare l’esperienza del Covid, ma sicuramente è stata un’occasione per dimostrare che aver elaborato una struttura di questo tipo molto tempo fa, averla oliata e averla fatta funzionare bene negli anni, è servito a garantire a noi e soprattutto ai pazienti la tempestività cui accennavo oltre che l’appropriatezza”.
 
La Rete ligure e il Ponte Morandi
“La Liguria” ha sottolineato dal canto suo Paolo Pronzato, Responsabile della rete oncologica regionale “è una Regione piccola e se per certi aspetti può essere più semplice di altre da governare dal punto di vista clinico, visto che ha un solo Hub, un solo grande ospedale intendo, e ospedali provinciali molto importanti ma più piccoli, per altri, soprattutto logistici è molto difficile perché molto lunga e con una viabilità come tutti sanno assai complessa. Il funzionamento della rete, in realtà, era già stato stressato prima di quest’anno perché in occasione del crollo del Ponte Morandi ci siamo ritrovati, per fare un esempio, tutti i centri di radioterapia da una parte del ponte e metà dei potenziali utenti dall’altra. Qui è intervenuta la rete per facilitare percorsi che erano diventati davvero molto complicati. E con lo stesso spirito (e organizzazione) abbiamo affrontato la pandemia. Alcuni punti, però, sono rimasti fermi perché di questo siamo convinti: in primis l’aver “blindato” l’ospedale per le terapie farmacologiche. I trattamenti oncologici medici sono dei trattamenti che richiedono non solamente la dispensazione del farmaco ma tutto un concerto assistenziale che va dall’approccio multidisciplinare alla rivalutazione, alla visita di persona, all’incontro con lo psiconcologo, al geriatra nel caso di pazienti anziani. Tutti momenti assistenziali che è difficile replicare all’esterno dell’ospedale, non impossibile, ma difficile. Per questi pazienti bisogna preservare il più possibile la possibilità di accesso all’ospedale anche se nei momenti di maggiore pressione epidemica è chiaro che si è fatto ricorso all’home delivery o altre formule di distanziamento del paziente dall’ospedale. Ma devono essere pensate come eccezionali. E questo lo dico anche in prospettiva perché se parliamo di territorializzazione dell’oncologia allora chiarisco che intendiamo fare riferimento a funzioni che possono essere esternalizzate, operate nei distretti, affidate al medico di medicina generale, affrontate con la televisita ma sono funzioni che hanno a che fare con il follow-up dei pazienti potenzialmente guariti. Molto meno o addirittura per niente secondo me per quanto riguarda la funzione delle somministrazioni di farmaci. Tre ultime osservazioni” ha quindi concluso Pronzato.
 
“In primis sul tema del numero dei posti letto ospedalieri. Noi siamo il fanalino di coda nel contesto dell’Unione europea per quanto riguarda il numero di posti letto per acuti e quando ragioniamo in termini di organizzazione assistenziale dei pazienti oncologici dobbiamo pensare che oggi i pazienti oncologici cronicizzati hanno frequente bisogno di accesso ospedaliero per un ricovero ordinario per peggioramento della sintomatologia oppure per tossicità legate ai farmaci. Dobbiamo quindi fare i conti con questa scarsa dotazione di risorse di personale, finanziarie ma anche di posti letto per acuti che ha il nostro sistema. Qualcuno si è mai chiesto come mai la Francia e la Germania hanno il doppio dei nostri posti letto per acuti? La seconda osservazione riguarda il rischio che i pazienti oncologici corrono ancora oggi di essere discriminati come trent’anni fa. Della serie: “è un paziente oncologico, quindi destinato a morire” ma questa è una cosa assolutamente da contrastare con tutte le nostre forze. Lo abbiamo fatto in Liguria con un provvedimento analogo a quello della Regione Piemonte ma è ben chiaro che non bisogna abbassare la guardia sotto questo aspetto. Infine la sperimentazione che, per i pazienti oncologici, ha un significato assai diverso rispetto alla sperimentazione che riguarda altri settori della medicina perché molte volte rappresenta l’unica opzione terapeutica valida e quindi va preservata molto di più di quanto sia stato fatto in questa occasione”.
 
L’evoluzione sul territorio
Univoco, infine, l’elemento di fondo a cui secondo Davide Croce l’oncologia italiana e le sue tre grande aree di intervento deve prestare molta attenzione: la cronicizzazione delle patologie. “La cronicizzazione di molte patologie oncologiche – ha sottolineato – traguarda necessariamente la necessità di una maggiore assistenza sul territorio. Se alcune patologie vengono cronicizzate – ha spiegato ancora – avremo sempre più pazienti (per fortuna) e sempre meno medici che, volenti o nolenti dovranno aprirsi maggiormente ad una cultura di lavoro di team”. E questo sembra essere il comune destino delle tre grandi aree oncologiche. “Quella immunologica – ha aggiunto Croce - con i tutti i problemi d’infusione del farmaco e del reperimento di spazi e organizzazioni territoriali, quella della medicina di precisione che riguarda prevalentemente le mutazioni e che ha necessità di un’organizzazione efficace di team a livello intraospedaliero con la velocizzazione dei processi e la necessaria presenza dei servizi anatomopatologici, di radiologia interventistica, di pneumologia, etc. e l’ultima, che anche se in questo momento è più spostata sull’ematologia, rappresentata dalle CAR-T, ossia dell’area delle terapie geniche che vuol dire avere grande capacità di team all’interno del singolo ospedale”. Insomma, un unico comune denominatore, quello della necessità di operare in team, che a diversi livelli, accumunerà ogni ambito di intervento dell’oncologia e che nel concetto di Rete trova i valori fondanti per garantire qualità, equità ed efficacia dell’azione terapeutica.

 
Dal confronto emerso durante questo secondo meeting è possibile individuare alcune attività operative su cui le Regioni possono e dovrebbero lavorare, in quanto orientate all’efficientamento del percorso del paziente oncologico:
• Il potenziamento delle reti oncologiche regionali come strumento della corretta presa in carico multidisciplinare del paziente
Individuare con chiarezza le “regole di ingaggio” delle reti oncologiche, per definire un corretto percorso in cui i diversi attori abbiano ben chiaro il “chi fa cosa”
• Garantire in ogni momento un approccio multidisciplinare e multiprofessionale
• Investire risorse e compiere nuove scelte politiche per garantire il collegamento tra ospedale e territorio
• Investire in innovazione tecnologica, che permetta il reale e capillare utilizzo degli strumenti della telemedicina e del teleconsulto, per decentralizzare alcune attività decongestionando l’ospedale
• Individuare percorsi di presa in carico del paziente oncologico che lo salvaguardi nell’accesso a pratiche assistenziali intensiviste o salvavita.

17 dicembre 2020
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