Ecco perché diciamo no alla “doppia attività” in sanità
di Livio Garattini e Alessandro Nobili
La doppia attività in sanità andrebbe bandita in qualsiasi sistema sanitario evoluto (e quindi in tutta la UE) anche a salvaguardia del principio di equità di accesso alle cure. D’altro canto, ciò non significa nemmeno pretendere sacrifici illimitati da parte di tutti gli operatori sanitari senza il riconoscimento di uno stipendio adeguato alla società in cui vivono
07 SET - La doppia attività (pubblica e privata) in campo clinico è un fenomeno oramai antico, che si perpetua più o meno in tutte le parti del mondo, non solo nelle nazioni più povere, dove le autorità sanitarie non hanno fondi a sufficienza per coprire le proprie spese, ma anche in quelle più ricche e sviluppate, tutt’al più con qualche divieto formale qua e là (ad esempio in qualche provincia del Canada). Limitandoci all’Europa, la doppia attività è tuttora autorizzata tanto nei Paesi scandinavi quanto in quelli latini, seppure con diverse regole e modalità.
L’attività privata è molto legata:
- i) all’età e quindi all’esperienza dei medici, tendendo a crescere con l’andare degli anni;
- ii) al tipo di specialità e quindi al legame più o meno stretto e duraturo coi pazienti, essendo molto più diffusa fra cardiologi, dermatologi e ginecologi piuttosto che fra radiologi, laboratoristi e intensivisti.
In periodi più recenti, l’attività secondaria è stata erogata non solo nelle tradizionali strutture private (ambulatori, case di cura ecc.), ma anche in quelle pubbliche, ad esempio nelle stanze a pagamento dei nostri ospedali pubblici, permettendo al paziente di scegliere il proprio medico oltre che di usufruire di un servizio alberghiero migliore (c.d. attività intra moenia).
La doppia attività è un tema scarsamente dibattuto in letteratura, soprattutto (e forse non a caso) sulle riviste mediche, ma anche più in generale nei mass media. Una spiegazione plausibile di questa scarsa attenzione è che la doppia attività, al di là di favorire i pazienti più ricchi, è “una trasgressione che non fa vittime” e quindi non fa notizia presso il grande pubblico, a meno che non sfoci in qualche singolo fenomeno eclatante di corruzione individuale. In ultima analisi, la doppia attività viene considerata come un fenomeno storico e ineluttabile, motivo per cui difficilmente ne viene richiesta la messa al bando; un ragionamento facilmente estendibile nell’immaginario collettivo anche al più ampio concetto di corruzione istituzionale (vedi sotto), a cui può essere associata l’intra moenia.
La giustificazione pratica più frequentemente addotta per tollerare la doppia attività è che la sua messa al bando favorirebbe eccessivamente il settore privato nell’attrarre i medici più qualificati con stipendi elevati, a tutto scapito del settore pubblico. In effetti, al di là di tutti i tentativi più o meno sofisticati di giustificare la doppia attività, alla fine la spiegazione viene sempre ricondotta a tutte le latitudini (Norvegia inclusa) ai valori monetari, sia per i medici che per i pazienti. I primi ovviamente per guadagnare di più, i secondi per saltare le liste d’attesa e fissare appuntamenti in tempi stretti con un medico di propria scelta se hanno un reddito tale da poterselo permettere e a prescindere dalla reale urgenza del proprio bisogno sanitario da soddisfare.
Ovviamente il circolo vizioso diventa finanziariamente più sostanzioso per i medici che sviluppano la capacità (molto più opportunistica che deontologica) di selezionare e indirizzare i pazienti più ricchi verso la propria attività privata. Una forma più recente e sofisticata di doppia attività è quella indotta dalla già citata intra moenia, in cui l’attività privata è direttamente incoraggiata addirittura dalle stesse autorità sanitarie pubbliche. Una situazione talmente paradossale sotto il profilo concettuale (per non dire etico) da essere stata definita in letteratura come un fenomeno lampante di “corruzione istituzionale”. Infatti solleva un conflitto di interessi del tutto evidente all’interno delle strutture pubbliche stesse, che sfruttano i propri dipendenti amministrativi per sviluppare un’attività parallela istituzionalmente conflittuale e pagano degli extra a quelli sanitari che danno la propria disponibilità per far saltare le liste di attesa pubbliche ai pazienti che li scelgono.
Come spesso accade, anche nel caso della doppia attività viene comunque in soccorso qualche teoria economica, in questo caso derivata dall’economia del lavoro, secondo cui i lavoratori dipendenti esercitano un secondo lavoro nel loro tempo libero solamente quando lo stipendio del primo non li soddisfa appieno. Quindi, il guadagno aggiuntivo generato dal secondo più che giustifica il sacrificio del tempo libero perduto dal lavoratore. Peraltro, in sanità questa teoria stride palesemente con quella generalmente indicata in tutte le indagini di settore, che individua l’interesse primario dei clinici nella salute dei loro pazienti, e non nel loro reddito.
D’altro canto, le indagini focalizzate sul reddito percepito confermano che i medici considerano quasi sempre insufficienti gli stipendi erogati nel settore sanitario pubblico, motivo per cui si dichiarano più che disponibili a rinunciare alla propria attività privata in cambio di uno stipendio più elevato.
Tanto per completare la riflessione reddituale, va anche ricordato che il percorso formativo dei medici è probabilmente il più lungo in assoluto di tutte le professioni esistenti, a partire dalla laurea di sei anni (in quasi tutta Europa) per finire con gli anni di specialità. Pertanto, anche se il loro reddito medio risulta multiplo rispetto a quello pro capite in tutti i Paesi (più che doppio in Italia e addirittura quasi quadruplo in Germania), è corretto sottolineare che i medici incominciano a ricevere uno stipendio molti anni dopo tutte le altre professioni. Peraltro, passando dai valori medi totali a quelli per specialità medica, le differenze di reddito possono risultare sorprendenti e i picchi massimi addirittura imbarazzanti nelle (rare) indagini effettuate di questo tipo. Ad esempio, qualche anno fa in Inghilterra il reddito medio degli intensivisti, categoria balzata recentemente agli onori della cronaca per il Covid-19, era risultato drasticamente inferiore a qualsiasi età rispetto a quello dei colleghi oculisti, cardiologi e ortopedici, esclusivamente a causa dell’attività privata pressoché inesistente nella loro specialità.
Per completare le riflessioni sulla doppia attività, ci piace citare una metafora quasi diametralmente opposta a quella precedente dell’economia del lavoro, derivata in questo caso dall’organizzazione del lavoro aziendale. Il fatto che il dipendente di un’azienda lavori anche per una concorrente sarebbe escluso a priori in qualsiasi settore, ma forse ancora più bizzarro sarebbe trovare un manager di un’azienda che incontra gli stessi clienti fuori dall’orario di lavoro per fare affari con loro in un altro ufficio oppure addirittura nello stesso.
Oltretutto, è doveroso ricordare che tutti i professionisti sanitari (infermieri inclusi) svolgono un’attività considerata usurante e a rischio crescente di burnout, specialmente in ospedale, dove sono tenuti a fare anche turni notturni e festivi. Quindi, a maggior ragione, i professionisti sanitari dovrebbero trarre grande beneficio da lunghe pause di servizio piuttosto che impegnarsi in attività stressanti di extra lavoro.
Volendo provare a tirare le fila di tutto quanto fin qui argomentato – in cui abbiamo volutamente omesso la c.d. assistenza integrativa, in continua diffusione nel nostro Paese, perché ha tutt’altre cause di natura fiscale − fatichiamo veramente a trovare delle giustificazioni accettabili a qualsiasi forma di doppia attività in sanità, che a nostro avviso andrebbe bandita in qualsiasi sistema sanitario evoluto (e quindi in tutta la UE) anche a salvaguardia del principio di equità di accesso alle cure. D’altro canto, ciò non significa nemmeno pretendere sacrifici illimitati da parte di tutti gli operatori sanitari senza il riconoscimento di uno stipendio adeguato alla società in cui vivono.
L’aspetto reddituale è sicuramente un problema cruciale da affrontare e risolvere in tutte le nazioni, a cui si potrebbe cercare di dare in prospettiva una soluzione europea, tenendo conto di alcuni semplici parametri finanziari del tipo rapporto col reddito pro capite nazionale, ma anche di possibili regolamentazioni più generali del tipo pensionamento precoce per le specialità più a rischio di burnout, ad esempio la psichiatria tanto per citarne un'altra oltre a quelle di emergenza-urgenza.
Più in generale, a noi sembra evidente che una cultura organizzativa basata sul lavoro di gruppo e la collaborazione fra colleghi sia da privilegiare (per non dire imporre) in sanità, ciò che renderebbe assai meno rilevante anche in ambito ospedaliero la possibilità data al paziente di scegliere a pagamento il proprio medico curante. Un problema prima o poi da affrontare in modo concreto per far passare nella testa della gente che la sanità va equiparata a uno “sport di squadra” piuttosto che a uno “sport individuale”.
In conclusione, lasciando la logica del mercato al privato e basta, siamo convinti che la strategia giusta da perseguire in futuro in sanità sia quella di concentrarsi sulla ricerca di soluzioni ragionevoli e fattibili per gestire e gratificare nel miglior modo possibile i professionisti sanitari che operano a tempo pieno esclusivamente nel servizio pubblico. Siccome non ci sembra un’affermazione da libro dei sogni, confidiamo ci credano anche i futuri legislatori europei, ispirandosi a una filosofia di salute pubblica che salvaguardi l’equità sociale.
Livio Garattini e Alessandro Nobili
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS
07 settembre 2021
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