Vaccino “made in Italy” e anticorpi monoclonali. Siamo proprio sicuri?
di Giovanni Rodriquez
Ha senso investire con un anno di ritardo su un vaccino con una tecnologia identica a quello già approvato di AstraZeneca? Perché non stanziare quelle risorse per incrementare la produzione di quest'ultimo o per dotare anche il nostro Paese della tecnologia necessaria per la produzione di vaccini mRNA? E ancora, visti i risultati non 'entusiasmanti' degli anticorpi monoclonali, e la possibile loro "perdita di efficacia" rispetto a varianti Covid già presenti in Italia, perché investire 500 mln al 'buio'?
06 FEB - Vaccino 'italiano' Reithera e un fondo da 400-500 milioni per l'acquisto di anticorpi monoclonali. Due scelte adottate nelle ultime settimane dal governo Conte per contrastare l'epidemia di Covid che non hanno visto tutti d'accordo.
Cominciamo dal vaccino Reithera. Il CdA di Invitalia ha approvato lo scorso
26 gennaio il contratto di sviluppo presentato da Reithera che finanzia un investimento industriale e di ricerca da 81 milioni di euro. "E’ un accordo importante per ridurre la dipendenza del nostro Paese in un settore delicatissimo per la tutela della salute dei nostri cittadini – spiegava
Domenico Arcuri, Commissario straordinario per l’emergenza Covid e Amministratore delegato di Invitalia -. La produzione italiana di vaccini andrà ad aggiungersi a quelle realizzate all’estero rafforzando la capacità di risposta nazionale alla pandemia e accelerando così l’uscita dalla crisi”.
La strategia dunque è chiara, produrre un 'nostro' vaccino per rendere l'Italia meno 'dipendente' dalle forniture delle altre aziende farmaceutiche. Fin qui tutto bene, se non fosse per alcuni dettagli. Reitherà è un vaccino basato su adenovirus di gorilla, una tecnologia molto simile a quella del vaccino di AstraZeneca già approvato basata su adenovirus di scimpanzé, e che verrà somministrato a partire dalla prossima settimana. "In sostanza si decide di investire, con un anno di ritardo, su un prodotto pressoché uguale ad un vaccino già utilizzato, senza certezze sul fatto che si riesca ad ottenere risultati migliori", spiega
Enrico Bucci, professore aggiunto di Biologia dei sistemi complessi alla Temple University di Philadelphia. Parliamo tra l'altro di una tecnologia diversa dai più innovativi vaccini mRNA, e meno adattabile a possibili future varianti resistenti ai vaccini in circolazione.
Al che viene da chiedersi, perché non utilizzare quelle risorse per incrementare la produzione di vaccini già approvati? Ricordiamo che il nostro Paese è uno dei pochi 'big Ue' al momento non coivolto dalla produzione dei vaccini mRNA di Pfizer e Moderna già attiva in Germania, Francia, Svizzera, Belgio e Spagna. Finora il nostro ruolo si limita all'infialamento del vaccino di AstraZeneca grazie alla Catalent, ad Anagni.
Eppure il nostro Paese può contare sui contoterzisti più produttivi d'Europa.
Giorgio Bruno, presidente del Gruppo Produttori Conto Terzi di Farmindustria ha di recente spiegato che in circa 6-8 mesi è possibile trasferire a un impianto italiano la tecnologia e il know-how per la produzione di un vaccino ad mRNA. Un investimento che permetterebbe al nostro Paese di potersi dotare di una tecnologia innovativa.
E, in alternativa, se si volessero invece produrre vaccini basati su adenovirus, si potrebbe fin da subito lavorare per incrementare quello di AstraZeneca, immediatamente disponibile. Non solo con le attuali procedure di 'infialamento', ma anche dotantosi di quei bioreattori che ad oggi scarseggiano. "Non parliamo di una tecnologia particolarmente avanzata, ma di quegli stessi bioreattori utilizzati, ad esempio, per fare l'insulina per diabetici", spiega ancora Bucci. Si tratterebbe quindi di fare una riconversione di certo non impossibile per poter incrementare in tempi relativamente brevi la produzione di AstraZeneca.
Passiamo poi agli anticorpi monoclonali. In questi giorni è arrivato il
via libera da parte dell'Aifa e, come spiegato dal presidente
Giorgio Palù, si prevede l'istituzione di "un fondo straordinario come per i vaccini, facendo leva sul decreto legislativo 219 del 2006, che recepisce una direttiva europea del 2003". Un fondo da circa 400-500 milioni che verrebbe gestito dal commissario Arcuri.
La notizia è stata accolta con un certo entusiasmo mediatico, tuttavia, leggendo il parere della Cts di Aifa, i risultati di questa terapia non sono così esaltanti, anzi. Si legge infatti che, riferendosi ai monoclonali di Eli Lilly, "attualmente l’uso di emergenza è stato autorizzato (in USA e Canada) solo per quanto riguarda il farmaco bamlanivimab al dosaggio di 700 mg, e che né i dosaggi più alti di esso né la combinazione con etesevimab risultano attualmente disponibili. L’azienda conferma d’altra parte che il dato relativo ad una riduzione del 70% della mortalità (che non risulta ancora pubblicato e per il quale nel corso dell’audizione non sono stati presentati risultati) si riferisce unicamente alla combinazione, attualmente non disponibile". Quindi il risultato più sospinto mediaticamente fa riferimento ad una combinazione farmaceutica non disponibile.
La discussione si concentra quindi solo sui dati disponibili per il dosaggio di 700 mg in monoterapia: "In particolare - si legge sempre nel parere del Cts di Aifa - in pazienti ambulatoriali con sintomi lievi/moderati tale dosaggio risulta associato ad una riduzione, in valori assoluti, del tasso di ospedalizzazione o di visite al pronto soccorso al giorno 29 di circa il 5% nella popolazione generale (9/156, pari al 5.8 % nel placebo vs 1/101, pari all’ 1% nel braccio trattato), che in un’analisi esplorativa appare salire a circa l’11% (7/52, pari al 13.5% nel placebo vs 1/37, pari a 2.7% nel braccio trattato) nei pazienti ad alto rischio. L’azienda concorda con l’osservazione che la correlazione di tali esiti con la riduzione della carica virale non appare attualmente dimostrata".
Quanto alla combinazione dei due anticorpi di Regeneron/Roche, imdevimab e casirivimab, il setting è quello dei soggetti ambulatoriali con sintomi lievi/moderati. "I monoclonali, infatti - si legge nel parere - non si sono rivelati efficaci nei pazienti più gravi o sotto ossigeno e alcuni degli studi in tale setting sono stati interrotti per futilità". Il trattamento si traduce, nella popolazione generale, "nella riduzione assoluta del tasso di visite mediche al giorno 29 di circa il 3% (6/93 nel gruppo placebo rispetto al 6/182 nel gruppo trattato)".
Per finire, l'Istituto superiore di sanità ha oggi sottolineato come "alcuni anticorpi monoclonali attualmente in sviluppo potrebbero perdere efficacia" rispetto alle variante del Covid quali quella sudafricana o inglese, tra l'altro già presente nel nostro Paese.
Alla luce di tutto questo, in molti si stanno chiedendo se abbia davvero senso investire fino a 500 milioni di euro di fondi pubblici a fronte di questi risultati.
Giovanni Rodriquez
06 febbraio 2021
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