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Quel giorno che Luciano Lama mi chiamò per sapere cosa avessi mai scritto sulla sanità per far arrabbiare il PCI

di Ivan Cavicchi

Era il 1986 e il mio libro che aveva allarmato diversi esponenti del vecchio PCI si intitolava “Salute nova, per una nuova teoria della salute oltre il paradigma della tutela”. Ammetto che certe idee all'epoca potessero risultare eretiche ma in questi 34 anni la sanità ne ha viste talmente tante, che, quello che ieri a livello di intuizione poteva sembrare inconcepibile oggi è del tutto concepibile. E anche per questo ribadisco al ministro Speranza che se si limiterà a potenziare il sistema, cioè a spendere soldi senza riformarlo, ci metterà nei guai

17 SET - Chissà perché fino ad ora non sono mai riuscito ad incontrare, neanche per sbaglio, il ministro Speranza. Attraverso questo giornale, vorrei proporre al ministro della Salute una “scaletta”, terra terra, di snodi cruciali, e spiegargli, cosa farebbe un riformatore, se fosse al suo posto, con una pandemia tra i piedi e tante criticità da affrontare.
 
La prima cosa che farei 
Riformerei il concetto di “tutela” che è il postulato politico e culturale da cui tutto nasce compreso come si governa la sanità, come si organizzano i servizi, come si fa medicina e perfino come viene pagato il lavoro. Si tratta di un concetto di “difesa”, di stampo giusnaturalistico, e che la pandemia ha sfacciatamente messo in crisi. La salute ormai non è solo questione di difesa e meno che mai solo di diritti ma anche di condizioni per la salute , di comportamenti sociali, di responsabilità individuale e collettive, ma è anche una questione di doveri.
 
I doveri alla salute, sino ad ora, non sono mai stati contemplati.Il concetto di prevenzione,esattamente come la cura,rientrando nell’idea classica di tutela resta una questione di diritti.Con la pandemia sfido chiunque a dire che la salute è solo una questione di diritti e che la prevenzione non sia un dovere sociale.
 
La tutela, per come è ancora declinata nelle norme, ha dato luogo a un genere di:
• sanità delegata e paternalistica,
• governo sanitario di pura amministrazione delle persone (malati e operatori),
• ad una idea finta di partecipazione sociale,
• servizi autoriferiti concepiti prevalentemente come produttori, di prestazioni,
• retribuzioni burocratiche estranee alle complessità del malato e alle esigenze reali del cittadino,
• cittadino “paziente”, ecc, ecc.
 
In pratica riscriverei l’art. 1 e 2 della 833 con l’obiettivo di ricontestualizzare l’art. 32 che così resterebbe invariante e a seguire aggiornerei le due riforme successive la 502 e la 229.
 
A partire dalla lezione della pandemia più o meno scriverei che:
• la salute è un diritto ma anche un dovere non solo dell’individuo ma della comunità,
• se esiste un “interesse della collettività” allora implicitamente esiste una comunità cioè un vero e proprio soggetto politico,
• la salute si tutela certo ma soprattutto si costruisce attraverso i doveri, nella comunità fatta da cittadini e da operatori,
• nel rispetto non solo “della dignità e della libertà della persona umana” ma anche nel rispetto dei diritti e dei doveri di cittadinanza della comunità,
• il SSN è strumento della comunità non per la comunità.
 
La seconda cosa che farei
Aggiornerei sulla base dei diritti e doveri della comunità l’impianto dell’attuale SSN. La comunità prende il posto del il territorio per cui non più USL ma SSSC, cioè “sistemi socio-sanitari di comunità”.
 
La pandemia ha imposto il valore della prossimità che ricordo è la minima distanza tra una domanda di salute e una offerta di sanità, ma un sistema organizzato per comunità è decisamente più prossimo di un sistema tradizionale basato sull’amministrazione del territorio. Comunità e salute coincidono.
 
Quindi riscriverei l’art. 10 della 833 (l’organizzazione territoriale):
• alla gestione dei programmi di costruzione, promozione e tutela della salute si provvede in modo non uniforme ma “discreto” sull'intero territorio nazionale mediante una rete completa di SSC, dove “discreto” vuol dire il più adeguato ad una comunità.
• La comunità non può che essere il riferimento di un rinnovato universalismo che non può basarsi sull’uniformismo dei servizi semplicemente perché il paese non è uniforme e non è uniformabile.
• L’universalismo vero per sua natura non nega le differenze ma le usa per dare e avere in modo equo a ciascuna comunità quanto serve.
• Il SSSC è un sistema non solo di servizi ma anche “insiemi” di persone (cittadini e operatori), cioè gruppi eterogenei di persone, che con ruoli diversi partecipano alla costruzione della salute e al suo governo.
• Sulla base dei criteri stabiliti con legge (…) i SSSC si articolano non più in distretti ma in “comunità di base” ai quali si riferiscono le strutture tecnico- funzionali dei SSSC per l'erogazione dei servizi di primo livello e di pronto intervento.
 
La terza cosa che farei
A partire dalla comunità cambierei l’attuale modello di governo della sanità. Da un governo delegato e paternalista che usa il territorio e per amministrare cittadini e operatori, si dovrebbe passare ad un governo della comunità basato sull’alleanza tra diritti e doveri quindi dei malati e degli operatori.
 
Per me, a partire dalla comunità, la forma di governo più adeguata non può che essere autenticamente federalista, ma il federalismo vero non quello fasullo del titolo V e del regionalismo differenziato. Si tratta di distribuire i poteri non solo tra le istituzioni, ma tra istituzioni e comunità.
 
Ridefinirei il concetto di decentramento amministrativo della 833 ridefinendo i rapporti tra stato centrale e regioni ma soprattutto recuperando il Comune al governo della salute. Come si fa a parlare di territorio, di salute, di prossimità senza Comuni? Il Comune è la comunità. La pandemia ci ha insegnato la grande importanza dei comuni e le grandi fragilità delle regioni. Con il modello di governo attuale il criterio di prossimità è totalmente negato. Le regioni sono distantissime dalle comunità. Il Comune quindi deve tornare ad essere il primo garante della salute di comunità.
 
Cancellerei quindi le aziende. Esse rappresentano semplicemente la negazione economicista di ogni forma di partecipazione sociale, il trionfo del gestionismo, e il riaffermarsi di una nuova forma di burocrazia.
 
Al loro posto metterei i CSC, cioè i “consorzi per la salute di comunità”. Perché il consorzio?
 
Perché esso:
• giuridicamente è l’unione di più individui o enti, legati tra loro con doveri e diritti comuni e per un fine determinato,
• nel caso della sanità sarebbe l’espressione di un contratto sociale o meglio di un contratto di cooperazione tra cittadini operatori e istituzioni,
• i suoi organi di gestione sono i più coerenti con il concetto di comunità (assemblea dei consorziati, consiglio di amministrazione, direttore generale, collegio sindacale).
 
Quindi riscriverei il capo 2 della 833 sulle competenze istituzionali e l’art. 14 e 15 rispettivamente, unità sanitarie locali, struttura e funzionamento delle unità sanitarie locali.
 
La quarta cosa che farei
Riscriverei di sana pianta gli statuti giuridici degli operatori originati dal dpr 761:
• le professioni che hanno rapporti di cura con i malati debbono essere definite giuridicamente quali “professioni impareggiabili”,
• ne dipendenti e ne convenzionati ma “autori” di salute, e formati come tali.
 
L’autore è rispetto al governo comunitario della sanità:
• uno shareholder (un’azionista),
• un “socio del consorzio” che si confronta con altri soci sulla base di precise relazioni fiduciarie.
 
Aggiornerei infine di sana pianta lo schema vigente di contrattazione a partire da un postulato preciso: il lavoro è il capitale della sanità. Oggi non è più possibile retribuire chi lavora in sanità solo sulla base di una generica qualifica denotata in modo burocratico e men che mai sulla base di criteri che non tengono conto dei risultati (quote capitarie, monte ore, competenze, ecc).
 
Mentre fino ad ora si è pagato il pennacchio cioè la qualifica e non le capacità di lavorare, da oggi in poi si tratta di pensare con la logica del PSA cioè del “professional service agreement” con lo scopo di:
• stabilire un rapporto stretto tra salute, prassi, retribuzione,
• premiare meritocraticamente le capacità le abilità le autonomie intellettuali di chi lavora,
• pagare meglio e di più sulla base dei risultati di salute valutati in relazione alle complessità affrontate cioè mettere il malato tra le ordinabili della retribuzione.
 
La quinta cosa che farei
Declinerei questi 4 punti in quello che viene chiamato “territorio” e nello stesso tempo ridefinirei l’ospedale, cioè supererei l’attuale sistema duale, territorio/ospedale, il sistema deve essere unico, quindi mi adopererei per definire, nuove organizzazioni integrate, nuove prassi e nuove professioni penso ai medici di medicina generale agli specialisti ambulatoriali e agli ospedalieri garantendo a chi lavora retribuzioni adeguate.
 
Quando il ministro aveva 7 anni 
Vorrei raccontare ora al ministro di Articolo 1 un aneddoto personale: nel 1986, lui aveva circa 7 anni, lavoravo al Nuovo Regina Margherita di Roma ed ero responsabile della sanità per la CGIL nazionale.
 
In quel tempo non c’era nessuna pandemia tuttavia pubblicai un libro, il cui titolo al contrario, sembrava scritto proprio dopo una pandemia “Salute nova, per una nuova teoria della salute oltre il paradigma della tutela”.
 
Il libro per le sue tesi riformatrici, suscitò sorpresa e scalpore qualche “compagno” del PCI che si occupava di sanità, allarmato dalle mie tesi spericolate, parlò con Luciano Lama, ponendogli il famoso “problema politico”.
 
Altri, al contrario, pur con delle obiezioni, apprezzarono lo sforzo riformatore di un giovane sindacalista appassionato. Tra questi ricordo con stima e affetto Mimma Rossanda, Giovanni Berlinguer, Sergio Scarpa, Severino Delogu, Lanfranco Turci e tanti altri, i miei maestri, che si badi bene avevano scritto di loro pugno la riforma del ‘78. Un giorno Lama mi chiamò e mi chiese cosa mai avessi scritto per far arrabbiare il partito, mi ascoltò con attenzione e alla fine disse “interessante devo dire a mia figlia (medico) di leggerlo”.
 
Ammetto che quando il ministro aveva 7 anni, certe idee anche se suffragate da analisi rigorose, potevano risultare eretiche, come quella di emanciparsi dalla zavorra del giusnaturalismo e ripensare l’idea di tutela, ma in questi 34 anni la sanità ne ha viste talmente tante, che, quello che ieri a livello di intuizione poteva sembrare inconcepibile oggi è del tutto concepibile.
 
Nel tempo, a causa delle tante criticità emerse molte intuizioni spericolate hanno trovato conferma. I nostri problemi più grandi vengono da lontano molto prima della pandemia, la pandemia ci ha solo sbattuto sul muso i nostri colpevoli ritardi.
 
Conclusioni
Caro ministro se lei si limiterà a potenziare il sistema cioè a spendere soldi senza riformarlo ci metterà nei guai.
 
Ovviamente non sono così sciocco da nascondermi le difficoltà, le prevedibili opposizioni ad esempio delle regioni, le obiezioni della Fiaso, le rivalità e le gelosie, con le quali ogni giorno ho a che fare. La sanità è come un pastis nel quale nobiltà e miserabilità si mischiano rendendo tutto opaco e nebbioso.
 
Ma il Paese, come chiede l’Europa, ha bisogno di riforme e la sanità per restare pubblica deve essere riformata. 
Certo ci vuole coraggio politico e pensando alle regioni che da anni dominano la scena, anche una bella dose di libertà e autonomia intellettuale.
 
Ma affogare in un pastis non è il massimo per cui dalla nebbia secondo me è meglio uscire fuori.
 
Ivan Cavicchi

17 settembre 2020
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