Riaprono le scuole. Ma dobbiamo capire che il rischio zero non esiste
di Grazia Labate
Ci dobbiamo aspettare che possano nascere microfocolai, che ci possano essere dei casi diagnosticati sia tra gli studenti che tra gli insegnanti, che tra tutto il personale della scuola, ciò che dobbiamo garantire è che chiunque venga prontamente diagnosticato venga isolato immediatamente e si interrompa quella che può diventare una catena di trasmissione del contagio
14 SET - L’istruzione è un diritto inalienabile, ma c’è ansia e preoccupazione nelle famiglie, nel corpo docente tra i ragazzi e le ragazze italiane. Abbiamo paura che possano nascere microfocolai, che ci possano essere dei casi diagnosticati, sia tra gli studenti che tra gli insegnanti, che l’epidemia si espanda.
Tutto legittimo, ma accanto a ciò dobbiamo essere consapevoli che abbiamo messo al sistema scolastico le necessarie “cinture di sicurezza” in modo da garantire che chiunque venga diagnosticato, venga anche isolato immediatamente e si interrompa quella che può diventare una catena di trasmissione del contagio.
Siamo in una fase di ripresa dei contagi e dei ricoveri figli dell’effetto vacanze e della trasmissibilità familiare. Indicazioni di sicurezza in tutte le ASL e tutta una serie di protocolli ci permettono di mantenere un rischio accettabile. Il rischio zero non esiste. Abbiamo evidenze che i ragazzi, soprattutto i più piccoli, trasmettono meno il virus, ma questo non ci mette al riparo, perché I ragazzi non stanno solo a scuola, dal nido alle superiori 24 ore, ma vivono in casa con le loro famiglie e dobbiamo evitare che diventino vettori inconsapevoli di contagio soprattutto nei confronti degli anziani fragili, dei nonni. Proprio per questo la riapertura delle scuole è così importante, sia dal punto di vista sociale che da quello sanitario. Occorre mobilitare tutte le risorse della società per garantire che ciò avvenga nella massima sicurezza.
Non servono i “braccio di ferro” tra istituzioni, non servono polemiche sterili su chi e dove misurare la febbre, ciò che va compreso è che serve un momento di corresponsabilità collettiva per far decollare al meglio e nella massima sicurezza possibile l’anno scolastico. Tutti ce la dobbiamo mettere tutta, dobbiamo attraversare i prossimi mesi con la massima attenzione, i dati che abbiamo non sono così positivi, ma neanche così negativi, come in altri Paesi.
Ci dobbiamo aspettare che possano nascere microfocolai, che ci possano essere dei casi diagnosticati sia tra gli studenti che tra gli insegnanti, che tra tutto il personale della scuola, ciò che dobbiamo garantire è che chiunque venga prontamente diagnosticato venga isolato immediatamente e si interrompa quella che può diventare una catena di trasmissione del contagio.
Quello che abbiamo imparato da questi nove mesi, da questa epidemia, e che dobbiamo investire tempo e risorse per mettere in sicurezza la nostra sanità pubblica che è il bene più prezioso per tutelare la nostra salute. Abbiamo pagato un prezzo altissimo per non aver aggiornato il vecchio piano pandemico per dodici anni. Non dobbiamo pensare che queste epidemie siano una rarità: solo in questo secolo è la settima, una ogni tre anni. Occorre prepararsi a gestirle. Non dobbiamo mai più trovarci come stavamo a febbraio, quando brancolavamo nel buio.
Sebbene la pandemia da Covid sia ancora in corso, volendo dare uno sguardo al futuro prossimo dobbiamo capire e farcene una ragione, che fino a che non avremo un vaccino o una cura risolutiva dovremo rispettare le attuali regole di distanziamento, mascherina e igienizzazione di noi stessi e di tutto ciò con cui veniamo in contatto.
Gli accessi ai Pronto Soccorso che per forza di cose, sono diminuiti molto in questo periodo, ci hanno fatto capire che non è sempre necessario andarci per problemi che potrebbero essere gestiti altrove o altrimenti. Quindi occorrerà rivedere la gestione del Servizio sanitario nazionale. Il sistema non potrà continuare a girare solo sull’ospedale come asse principale. Bisogna strutturare il sistema con altri due assi altrettanto forti : una medicina territoriale organizzata, fatta di distretti, ambulatori, assistenza domiciliare, residenze sociosanitarie, che in alcune parti del Paese non esistono proprio o sono molto insufficienti e un altro asse rappresentato, da tutto ciò che può essere fatto a casa, con una efficace domiciliarizzazione delle cure e con una assistenza domiciliare integrata che veda sempre più la persona al centro dei percorsi terapeutici.
Dunque il ruolo dei medici di medicina generale, quali tutori fondamentali della nostra salute, dovrà essere ripensato all’interno di un rinnovato sistema di cure, capace di realizzare, in modo omogeneo, in tutto il Paese il nostro SSN, con una potente iniezione di informatizzazione ed interoperabilità di sistema, anche attraverso un uso più intenso della telemedicina.
La pandemia ha messo chiaramente in evidenza che quando le risposte sono troppo differenziate, attraverso 21 servizi sanitari regionali, rischiano di non essere efficaci. Fino a quando l’emergenza non sarà davvero finita, ci dovremo riorganizzare innanzitutto con ospedali Covid in modo che i malati siano trattati senza rischio di contagiare altri settori dell’ospedale.
Quando sarà finita l’emergenza molti posti di terapia intensiva che abbiamo approntato rimarranno, poiché erano pochi quelli di cui disponevamo, gli altri in più, potranno essere convertiti a terapia sub-intensiva, di cui comunque c’è necessità. Se è vero che nulla potrà tornare come prima, c’è da chiedersi, se a livello europeo per esempio, abbia senso l’attuale organizzazione, senza un vero ministro della salute europeo, che coordini le politiche sanitarie comunitarie.
Infine alcune riflessioni più generali. La vulnerabilità di società complesse a fronte di infezioni, così tragicamente letali come di fatto è Covid-19, può dipendere da sbilanciamenti organizzativi dei sistemi sanitari: una sanità orientata sempre più verso la gestione delle malattie cronico-degenerative, non dovrebbe farsi trovare impreparata o addirittura essere di aiuto alla circolazione di un virus come SARS-CoV-2, come si è potuto constatare in moltissime RSA.
La vulnerabilità di società complesse alle malattie infettive dipende anche dalle percezioni sociali, per cui una mortalità pur di fatto molto inferiore e non anomala fino a ora, rispetto quella di diverse pandemie influenzali, per non dire della Spagnola, ha spaventato oltre il dovuto una società che non ha più familiarità con una numerosità (relativa) di morti e la contagiosità dei contatti fisici.
Come diverse culture politico-istituzionali hanno risposto e di conseguenza più o meno patito la pandemia. Costanti richiami al modello cinese o a quello sudcoreano, così come le dure reazioni alle scelte inglesi e svedesi, hanno testimoniato uno scarso senso della realtà nell’analisi degli scenari socio politici a livello globale, alla ricerca del modello perfetto, per fronteggiare un evento tanto socialmente temuto, quanto ancora subdolo e sconosciuto dal punto di vista delle evidenze scientifiche in atto o prospettico evolutive.
Vi sono motivi per domandarsi se il dialogo tra politica e scienza è stato proficuo al fine di una migliore gestione dell’emergenza, stante che la comunicazione a volte dissonante a volte stridente, non sempre abbia aiutato, se non alimentato il panico o la superficialità, nella popolazione, sull’efficacia delle politiche sanitarie.
Sono emersi problemi anche a livello di convergenza nella comunità medica su teorie virologiche ben studiate e su pratiche cliniche evidence-based, nonché sulle modalità di validazione sperimentale dei trattamenti clinici.
Vi sono dunque riflessioni profonde che la pandemia da Covid-19 ci rimanda, per trarne lezioni utili per migliorare i rapporti tra scienza, medicina e società, e al tempo stesso tra politica, istituzioni e SSN perché ciò che abbiamo vissuto e che ancora dovremo affrontare non ci faccia dire che lo abbiamo sofferto invano.
Grazia Labate
Ricercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità
14 settembre 2020
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