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Lasciar morire non significa sempre scegliere chi salvare

di Maurizio Balistreri

Lo scenario più drammatico con un sovraccarico delle terapie intensive epr l'eergenza Covid tale da rendere necessaria una selezione dei pazienti al triage secondo drastici criteri di scelta non si è fortunatamente verificato. Tuttavia, domani potremmo essere meno fortunati: è necessario, pertanto, avviare una riflessione pubblica sui criteri che dovrebbero guidare la medicina nelle situazioni di maxi-emergenza

18 APR - Un operatore sanitario ha l’obbligo sia morale che giuridico di astenersi da qualsiasi intervento medico che non è di alcun beneficio per il paziente, se lo fa contravviene alle sue responsabilità professionali: si accanisce infatti inutilmente su una persona che ormai sta andando incontro alla morte. Lasciar morire un paziente che non può essere salvato è qualcosa di diverso rispetto a scegliere quale paziente non curare subito ed eventualmente lasciar morire in una situazione di emergenza.
 
Nel primo caso l’operatore sanitario sceglie di fare un passo indietro perché ormai qualsiasi cosa sarebbe inutile e potrebbe soltanto prolungare l’agonia e le sofferenze del paziente: nel secondo caso, invece, il paziente potrebbe ancora essere salvato, ma l’operatore sanitario decidere comunque di lasciarlo morire perché pensa sia più giusto soccorrere e salvare altre persone.
 
Non è mia intenzione riaprire qui la discussione sul criterio di scelta più appropriato nelle situazioni di emergenza: alcuni ritengono giusto dare la priorità alle persone che hanno davanti un maggior numero di anni, altri invece darebbero la priorità agli operatori perché potrebbero salvare altri pazienti; in passato, durante una guerra, veniva data la priorità ai soldati che potevano ritornare a combattere.
 
L’importante è che sia chiaro che in questo caso stiamo parlando di decisioni che devono essere prese in una situazione dove le risorse scarseggiano e non è possibile assistere o tutti.
 
Nelle settimane passate, quando giornali e televisioni nazionali ed internazionali hanno incominciato a raccontare di alcuni ospedali travolti dall’arrivo di centinaia di pazienti e sull’orlo di un collasso, abbiamo temuto che gli operatori sanitari dovessero scegliere chi salvare e chi lasciar morire.
 
Le stesse raccomandazioni della SIAARTI sono state pensate per far fronte a questo scenario: “Le previsioni sull’epidemia da Coronavirus (Covid-19) attualmente in corso in alcune regioni italiane stimano per le prossime settimane, in molti centri, un aumento dei casi di insufficienza respiratoria acuta (con necessità di ricovero in Terapia Intensiva) di tale entità da determinare un enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive. È uno scenario in cui potrebbero essere necessari criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”, (Raccomandazioni SIAARTI, p. 3).
 
Malgrado nelle ultime settimane la stampa internazionale abbia riportato la notizia che negli ospedali italiani i medici non curavano più le persone oltre gli ottanta, i settanta ed anche sessantacinque anni perché le risorse ormai erano insufficienti e i medici preferivano salvare i più giovani, oggi sappiamo che gli operatori non hanno mai dovuto scegliere chi salvare e chi lasciar morire.
 
I medici non hanno la bacchetta magica per cui non hanno potuto fare nulla per i pazienti troppo fragili, per età o per altre malattie, o il cui ricovero avveniva ad uno stadio troppo avanzato dell’infezione. Negli altri casi, però, le cose sono andate meglio: chi poteva essere salvato è stato salvato e tutti hanno potuto contare sulle tecnologie più avanzate e sul personale medico più qualificato. In altri termini, le scelte riguardanti i pazienti covid-19 sono state essenzialmente tecniche: per decidere se (continuare a) curare o no un paziente, gli operatori sanitari hanno considerato solamente la sua capacità di sopportare e di sopravvivere al trattamento e alla terapia intensiva.
 
Alla fine, le considerazioni non tecniche, come ad esempio quelle relative alla sua aspettativa di vita non hanno avuto alcuna rilevanza o non sono state determinanti nelle scelte, perché le risorse c’erano per chiunque poteva sopportare il trattamento e trarre beneficio dalla cura. Naturalmente resta il dolore per le persone e le famiglie che son state colpite da questa tragedia, ma possiamo almeno rallegrarci che la situazione non sia diventata ancora più drammatica.
 
A questo punto, dopo aver appurato i fatti, restano alcune importanti domande riguardo a quello che è successo a cui credo gli operatori sanitari coinvolti possono aiutarci a rispondere. Innanzi tutto, come abbiamo fatto ad evitare di trovarci nello scenario più drammatico che era stato paventato e i medici non hanno dovuto decidere chi salvare e chi, invece, lasciare morire? È stata soltanto una questione di fortuna? Non c’è stato bisogno di scegliere soltanto perché, per ragioni che poi dovranno essere accertate, tante persone hanno preferito restare a casa? Il fatto che tante persone siano morte a casa è stato il risultato di una scelta oppure qualcosa non ha funzionato per cui alcune persone che potevano essere salvate non hanno ricevuto assistenza? Come rispondono, poi, gli operatori sanitari all’accusa avanzata da chi afferma che negare l’inevitabilità della scelta riguardo a chi salvare e chi lasciar morire significa rinnegare la realtà? È vero che si preferisce negare l’inevitabilità della scelta soltanto perché, in pratica, la selezione (condannare a morte qualcuno per salvare un altro) non piace a nessuno e risulta anche ripugnante?
 
Inoltre, gli operatori sanitari sottolineano che anche nella situazione di maxi-emergenza che stiamo vivendo è possibile rispettare i principi morali fondamentali della pratica medica. Il numero di pazienti che ha bisogno dell’assistenza sanitaria è naturalmente molto superiore e le condizioni di lavoro per gli operatori sanitari sono molto più stressanti ma – a parte questo – si tratta di uno scenario che alcuni medici, ad esempio gli anestesisti, hanno sempre vissuto.
 
Qualcuno aggiunge che l’unica differenza sostanziale tra quello che accade normalmente in un ospedale e la situazione che stiamo vivendo con l’emergenza covid-19 è che nella vita di tutti i giorni anche i pazienti più gravi e senza più alcuna speranza vengono intubati e portati in terapia intensiva. Ma portare un paziente in terapia intensiva, intubarlo e collegarlo ad un respiratore, pur sapendo che non ha alcuna possibilità di sopravvivenza, non è una forma di accanimento terapeutico? Ed è il paziente che chiede al medico di fare il possibile per prolungare la sua sopravvivenza o è il medico che decide per il paziente di collegarlo alle macchine e fare qualsiasi cosa? Se, poi, non è un forma di accanimento terapeutico, non è comunque uno sperpero delle risorse? Perché, cioè, consumare delle risorse pubbliche per interventi che non sono di alcun beneficio?
 
Non è chiara, infine, la posizione di quegli operatori sanitari, in prima linea nella guerra contro il covid-19, che, da una parte, affermano di non aver dovuto scegliere quale paziente salvare (al massimo, dicono, hanno dovuto lasciar andare persone che non sarebbero sopravvissute alla terapia) e, dall’altra, difendono e ammettono di scegliere seguendo le raccomandazioni della SIAARTI. Le raccomandazioni della SIAARTI riguardano l’ammissione a trattamenti intensivi e la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra la necessità delle popolazione e risorse disponibili. A quanto mi consta, invece, anche nelle settimane più difficili dell’emergenza ai medici e agli infermieri impegnati in prima linea non sono mancate le risorse sanitarie per curare e salvare tutti.
 
Per quale ragione, allora, si afferma di aver seguito alla lettera le raccomandazioni della SIAARTI? Anche se nessuno è stato lasciato indietro, c’è forse la percezione che si poteva fare di più? Oppure semplicemente alcuni operatori ritengono che comunque essi abbiano sempre il dovere di prolungare l’agonia e le sofferenze del paziente anche quando ormai non c’è più niente da fare, per cui sono convinti di essere venuti meno alle proprie responsabilità morali e professionali?
 
Il fatto, poi, che per giustificare le loro scelte alcuni operatori sanitari facciano riferimento al caso del trolly (cioè, il noto esperimento mentale del ‘carrello ferroviario’ in cui una persona deve decidere chi salvare e chi, invece, uccidere o far morire) complica ulteriormente le cose. Chi ricorda questo dilemma ha dovuto scegliere tra quali vite salvare e quali invece lasciar morire oppure ha semplicemente una difficoltà a distinguere appropriatamente alcuni scenari bioetici e pensa che ‘lasciar morire’ presupponga sempre una scelta riguardo a quale persona salvare (in fondo anche le riflessioni morali o bioetiche non si improvvisano e richiedono la giusta preparazione)?
 
Mi rendo conto che le domande sono tante, ma probabilmente per uscire da una situazione terribile come quella che abbiamo vissuto bisogna incominciarsi a porre le giuste domande. In questo modo speriamo di contribuire alla riflessione sulle scelte al tempo dell’emergenza. Almeno per il momento l’etica non è servita perché non c’è stato bisogno di fare delle scelte.
 
Tuttavia, domani potremmo essere meno fortunati: è necessario, pertanto, avviare una riflessione pubblica sui criteri che dovrebbero guidare la medicina nelle situazioni di maxi-emergenza. In questo modo domani potremmo essere preparati meglio ad affrontare i dilemmi morali. Affermare che in medicina già esistono criteri per le situazioni di emergenza non è un argomento: ad esempio, i criteri di priorità per la medicina dei trapianti potrebbero non essere adeguati per le situazioni di maxi-emergenza oppure essere legati ad una concezione superata di medicina.
 
In ogni caso, una discussione pubblica sui valori della medicina potrebbe rendere i cittadini più consapevoli riguardo ai loro diritti e accrescere la loro fiducia nei confronti degli operatori. La discussione però deve partire dai fatti e da una ricostruzione di quello che è successo: per questa ragione, le domande non sono più sufficienti, abbiamo bisogno di risposte oneste e sincere.
 
Maurizio Balistreri
Ricercatore di filosofia morale e bioetica presso il Dipartimento di Filosofia e scienze dell'Educazione dell'Università di Torino

18 aprile 2020
© Riproduzione riservata


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