Immigrati. Dove ce ne sono di più l’integrazione funziona meglio. I risultati di un rapporto Ocse/Ue
di Maria Rita Montebelli
Sono oltre 115 milioni gli immigrati presenti nei Paesi di area OCSE. Un rapporto dell’Unione Europea e dell’OCSE, ‘Indicators of immigrant integration 2015: Settling in’, per la prima volta fa il punto sul loro grado di integrazione, analizzando una serie di indicatori e focalizzandosi in particolare sugli immigrati di provenienza extra-europea e sui giovani
14 LUG - Nel 2012 una persona su 10 di quelle che vivevano nell’Unione Europea e nei Paesi di area OCSE risultava nata in un altro Paese. Tradotto in numeri assoluti, questo dato corrisponde a 115 milioni di immigrati nei Paesi di area OCSE e 52 milioni nei Paesi dell’Unione Europea (33,5 milioni dei quali, provenienti da Paesi non-UE). Dal 2000 inoltre, sia nei Paesi OCSE che dell’Unione Europea, il fenomeno dell’immigrazione è cresciuto del 30%.
Non sorprende dunque come le questioni dell’immigrazione e dell’integrazione degli immigrati (e dei loro figli) rappresentino una priorità nell’agenda politica dell’Unione Europea e delle nazioni di area OCSE, da un punto di vista sia sociale, che economico.
Allo stesso tempo, numerosi sono i preconcetti che circondano la questione dell’integrazione degli immigrati e dei loro figli, in particolare per quanto concerne i giovani immigrati, considerati un po’ la cartina al tornasole del successo o del fallimento dell’integrazione. Un altro focus del rapporto è riservato agli immigrati di provenienza extra-europea, che sono un altro obiettivo prioritario delle politiche di integrazione dell’UE.
L’Unione Europea ha a questo scopo individuato degli indicatori chiave (i cosiddetti ‘Indicatori Saragozza’) per monitorare i risultati delle politiche di integrazione nelle diverse aree dell’impiego, dell’istruzione, dell’integrazione sociale e della cittadinanza attiva.
Un confronto internazionale dei risultati dell’integrazione può fornire alle autorità politiche dei
benchmark che consentono loro di valutare i risultati delle loro nazioni, rispetto a quelli delle altre; questo permette anche di focalizzarsi sulle questioni più rilevanti, analizzando i
trend nelle diverse nazioni.
Da questo
background e da queste motivazioni è nato il rapporto, ‘
Indicators of immigrant integration 2015: Settling in’, realizzato dall’OCSE e dall’Unione Europea. Lo scopo non è ovviamente quello di fare un elenco delle nazioni più virtuose e delle ultime della classe in materia ‘immigrazione e integrazione’, ma di mettere in prospettiva le differenze esistenti tra le varie nazioni, analizzarne le ragioni e cercare delle soluzioni, promuovendo uno scambio di esperienze e di pratiche tra nazioni, che si trovano ad affrontare sfide simili.
Il documento rappresenta il primo vasto confronto internazionale tra tutte le Nazioni EU e OCSE relativamente agli
outcome per gli immigrati e i loro figli. Frutto della cooperazione tra la Commissione Europea (DG
Migration and Home Affairs) e la Divisione Internazionale delle Migrazioni dell’OCSE, questo rapporto, finanziato dall’Unione Europea, rappresenta la prima ‘puntata’ di quello che dovrebbe diventare un regolare monitoraggio di indicatori confrontabili di integrazione, nelle nazioni UE e OCSE.
La ricerca si basa su un primo gruppo di indicatori per le nazioni di area OCSE, selezionati nel 2012 e utilizza dati e informazioni derivanti dalla
International Migration Division dell’OCSE e da Eurostat, oltre a dati specifici, richiesti dall’Unione Europea alle nazioni di area OCSE.
Il primo capitolo fornisce una panoramica delle questioni trattate e dei principali risultati. I capitoli 2, 3, e 4 presentano informazioni contestualizzate delle popolazioni migranti, che vanno dai confronti socio-demografici di base con le popolazioni autoctone, a fattori inerenti alla popolazione immigrata (quali i motivi dell’emigrazione, le nazioni di origine, il tempo di permanenza), alla composizione dei nuclei familiari degli immigrati e al loro confronto con quelli delle popolazioni native.
Il capitolo 5 prende in esame gli indicatori chiave della partecipazione degli immigrati al mercato del lavoro, una componente importante della loro integrazione nella forza lavoro.
Il sesto capitolo esamina altri aspetti dell’integrazione nel mercato del lavoro, ovvero gli aspetti qualitativi dei lavori svolti dagli immigrati.
Il capitolo 7 tratta dell’istruzione e dell’addestramento, nel contesto dell’integrazione degli immigrati, mentre i capitoli da 8 a 10 considerano una serie di aspetti relativi all’integrazione sociale, dall’
income del nucleo familiare, alle abitazioni, allo stato di salute e all’accesso ai servizi sanitari. Il capitolo 11 tratta dell’impegno civico, mentre il capitolo 12 analizza alcuni aspetti misurabili di coesione sociale, ovvero la discriminazione e le opinioni circa l’immigrazione della nazione ospitante.
Il Capitolo 13 si focalizza sui giovani con un
background di immigrazione, mentre il capitolo 14 tratta dei cittadini non europei che vivono in una nazione europea.
Risultati principali.
Non sembra esserci una relazione tra la percentuale degli immigrati rispetto alla popolazione totale e il grado di integrazione, secondo i diversi indicatori considerati. Se qualcosa si può dire è che le nazioni che hanno il più elevato numero di immigrati sono anche quelle che hanno i migliori risultati di integrazione.
In tutte le nazioni, la disparità di reddito è maggiore tra gli immigrati che tra la popolazione autoctona e questo riflette l’ampia diversità delle popolazioni migranti.
Nel 2012-13 due immigrati su tre nelle nazioni di area OCSE risultavano impiegati (un dato superiore di un punto percentuale alla popolazione nativa); di poco inferiore il dato nei Paesi dell’Unione Europea, dove la percentuale di immigrati con un impiego risulta essere del 62% (tre punti percentuali inferiore rispetto ai nativi).
Un immigrato su tre nei Paesi di area OCSE e uno su quattro in quelli dell’unione europea risultava in possesso di un diploma di istruzione terziaria. In generale, maggiore il livello di istruzione, più facile l’ingresso nel mercato del lavoro, anche se per gli immigrati risulta più difficile che per i nativi. Il 42% degli immigrati con un titolo di istruzione superiore, nell’Unione Europea, risultava però svolgere lavori per i quali sarebbero sufficienti livelli di istruzione inferiori e questa percentuale rappresenta il doppio di quanto avviene per i cittadini dell’Unione Europea. La maggior parte degli immigrati titolari di un diploma di istruzione superiore risultava infine averlo conseguito nel Paese di provenienza.
Sebbene avere un lavoro rappresenti in generale uno scudo contro la povertà, gli immigrati con un lavoro, hanno il doppio di probabilità, rispetto ai locali, di vivere in un nucleo familiare con un reddito al di sotto della soglia di povertà per quel Paese. In più, anche a causa del basso reddito, gli immigrati hanno il doppio di probabilità di vivere in sovraffollamento rispetto ai loro pari locali (19% contro 8%), nei Paesi di area OCSE. Circa i 2/3 degli immigrati adottano la nazionalità del Paese ospitante.
Per quanto riguarda gli immigrati provenienti da Paesi extra-europei, il loro tasso di impiego è inferiore a quello dei cittadini europei, in tutte le nazioni europee; maggiori risultano anche le difficoltà nel trovare un impiego, anche per chi è in possesso di un diploma di istruzione superiore. Il tasso di povertà è il doppio rispetto a quello dei cittadini nativi dei vari Paesi ospitanti.
I giovani. Nel 2013, nelle 22 nazioni dell’Unione Europea e di area OCSE per le quali si dispone di dati, circa il 20% delle persone nella fascia d’età 15-34 era rappresentata da immigrati arrivati nella nazione ospitante da bambini o nati nella nazione ospitante, ma con almeno un genitore straniero. Un ulteriore 9% risultava arrivato nella nazione ospitante, da adulto. L’integrazione dei soggetti nati nella nazione ospitante, seppure con almeno un genitore straniero, tende ad essere migliore dei loro pari immigrati (ad esempio frequentano la scuola più a lungo degli immigrati arrivati da bambini).
Nei paesi UE tuttavia il tasso di disoccupazione giovanile tra i figli degli immigrati, nati nella nazione ospitante, è del 50% superiore rispetto ai giovani con genitori nati in quel Paese. Questa differenza è praticamente inesistente nei Paesi OCSE non-UE.
Maria Rita Montebelli
14 luglio 2015
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