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Liberalizzazioni. Ma vogliamo veramente le “catene” di farmacie?

di Fabrizio Gianfrate

Con le proposte del ministro Guidi e il venir meno della possibilità di possedere non più di quattro farmacie, ne deriverebbe uno scenario con poche ma estese catene sul territorio nazionale. Appartenenti a pochi soggetti dal grande capitale. Verrebbero 'uccise in culla' anche le aspirazioni dei tanti farmacisti non titolari che lottano per aprire una propria farmacia

09 FEB - Le proposte della Ministra Guidi sulle liberalizzazioni delle farmacie riguardano le due tematiche che analizzavo anche qui su QS il 28 gennaio, dove esaminavo quali potessero essere le dinamiche economiche conseguenti l’allargamento/eliminazione della pianta organica, ovvero l’aumento rilevante del numero di farmacie, e l’apertura alla vendita dei C-op anche a parafarmacie e corner GDO analogamente a quanto avvenuto nel 2006 per gli OTC.

Nel mio intervento ipotizzavo che per apportare un reale beneficio alla collettività (l’unico ed esclusivo aspetto al quale sono interessato, come cittadino e come professore di economia) fosse indispensabile la convergenza anche di altre condizioni di filiera come il livello dei prezzi ex factory, sostanzialmente ribassabile solo in presenza di gruppi di acquisto negozialmente molto forti capaci di spuntare ribassi rilevanti a fronte di grandi volumi trattati. Senza questi, spiegavo, il sistema subirebbe effetti negativi nella qualità del servizio, inoltre non sarebbe in grado di sostanziali ribassi dei prezzi e, paradossalmente, potrebbe rafforzare ulteriormente le farmacie più forti indebolendo ancora di più le più deboli, così come potrebbe penalizzare aree territoriali commercialmente meno “appetibili”.

Le proposte della Guidi rispondono a quell’elemento mancante, aggiungendo all’aumento rilevante del numero di farmacie e all’uscita “fuori canale” dei C-op, l’abbattimento del limite di quattro farmacie massimo che possono essere possedute da un unico soggetto giuridico, ovvero, di fatto, la possibilità di istituire grandi catene di farmacie in numero elevato appartenenti ad uno o pochi soggetti finanziariamente molto forti, attraverso l’apertura di nuove e/o acquisendo le esistenti, magari se indebolitesi economicamente (come descrivevo nel mio intervento) e divenute così più facilmente acquistabili. Ne deriverebbe uno scenario con poche ma estese catene sul territorio nazionale, appartenenti a pochi soggetti dal grande capitale, probabilmente con carattere multinazionale.

Il modello, “mutatis mutandis”, è un deja vù del largo consumo con i vari brand più o meno globalizzati che progressivamente hanno sostituito le piccole drogherie o mercerie o altri piccoli esercizi commerciali di proprietà dell’esercente
Ne beneficerebbe la collettività, nel breve e lungo termine? I prezzi (parliamo di farmaci a pagamento ed extrafarmaco, ovviamente, il 60% del fatturato della farmacia) si abbasserebbero, il “big player” produrrebbe forti economie di scala e si comporterebbe da potente centrale d’acquisto capace di guardare negli occhi le industrie produttrici (che immagino non auspichino questo scenario…) ottenendo prezzi d’acquisto ribassati da trasferire poi in buona misura nel prezzo di vendita al pubblico (mi riferisco come ovvio a farmaci non SSN ed extrafarmaco).

La qualità sui prodotti sarebbe in parte influenzata (in positivo o in negativo) dalla selezione a monte di referenze specifiche e dalla loro ”imposizione” da parte dei nuovi big players facendo leva sulla loro dominanza distributiva orizzontale, fino all’integrazione verticale nella filiera, disintermediando la distribuzione fino a farsi anche produttore, con le cosiddette “private labels”, i prodotti a marchio del distributore stesso (vedi la marmellata Esselunga, lo yoghurt Coop, che aveva provato con salicilato e paracetamolo, o il prodotto Boots in UK, esempio di grande catena di farmacie (e non solo), di cui tra l’altro, come noto, è titolare un italiano).

La qualità nel punto vendita, e di conseguenza la fidelizzazione col nuovo marchio, sarebbe influenzata dal ruolo degli addetti, in questo scenario, divenuti tutti dipendenti, con le implicazioni nel bene e nel male legate alla motivazione (e remunerazione) del capitale umano, notoriamente rilevante nella produzione di plusvalore della farmacia.
Analoga considerazione va fatta nelle politiche commerciali di standardizzazione dei punti vendita e del loro “layout”, in un processo di quella che Ulrich Beck chiamava “macdonaldizzazione”, che potrà essere più o meno temperato da varianti locali ma sempre guidato da logiche di economia di scala.

Quanto all’omogeneità nella distribuzione territoriale, liberalizzazioni in altri Paesi (Grecia, Norvegia, Francia) hanno creato disparità per l’accentramento in aree più redditizie (centro città, aree ad alta densità di urbanizzazione) a discapito delle meno (rurali, montane) richiedendo in quei Paesi rapidi ripensamenti. Il principio di garanzia dell’omogeneità qualitativa e di presenza territoriale è notoriamente alla base dell’istituto della pianta organica, esistente pressoché in tutti i Paesi OCSE, in Italia dalla Riforma Giolitti (1913), poi Riforma Mariotti (1968) e seguenti. Analogamente e per lo stesso principio di salvaguardia del servizio pubblico, dove per ragioni di contenimento della spesa farmaceutica pubblica sono ridotti i livelli di prezzo dei farmaci alle farmacie, la sanità pubblica offre loro altre fonti di redditività (es.: servizi) appunto per garantire un livello di ricavi tali da potere mantenere la qualità e capillarità dell’assistenza farmaceutica (Francia, Australia, Canada, UK).

In sintesi, le misure di cui sopra non possono non prescindere da alcune variabili cruciali, come regole e controlli su qualità, antitrust e omogeneità territoriale (tutti aspetti sui quali, va detto, il Belpaese non brilla).

Le ultime considerazioni la lascio alle conseguenze macroeconomiche dell’istituzione di poche grandi catene di farmacie, richiamando anche quanto descrivevo nel mio precedente commento circa la stagnazione del mercato e l’anelasticità della sua domanda con quindi effetto solo redistributivo dello stesso. Si tratterebbe di un trasferimento di profitti da migliaia di microimprese (le attuali farmacie) a poche grandi imprese (i marchi delle catene), con implicazioni di carattere reddituale verso l’accresciuto personale dipendente e fiscale in relazione allo status giuridico dei possibili grandi gruppi in oggetto.

Riguardo alle potenzialità dei tanti farmacisti non titolari che legittimamente lottano per la possibilità di aprire una propria farmacia, temo che l’abbattimento del limite della proprietà di quattro farmacie proposto dalla Guidi, ovvero l’apertura alle grandi catene, uccida in culla le loro più che legittime e condivisibili ambizioni, illusoriamente alimentate dalle altre proposte della “lenzuolata”, riduzione/abbattimento della pianta organica e C-op fuori canale, ma precluse “ab initio” se si apre la stessa loro strada al “gigante” economico-finanziario. In questo senso, mentre la diatriba shakespeariana tra “fratelli coltelli” titolari e non titolari continua (“dum Romae consulitur…”) litigando a mo’ dei capponi manzoniani, le vaste truppe del grande impero confinante, col beneplacito della Ministra Guidi, arriverebbero a prendersi tutto.

Fabrizio Gianfrate 

09 febbraio 2015
© Riproduzione riservata


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