Concentriamoci sulla domanda, come vogliamo “riformare” il SSN? La necessità di farlo è ormai un’opinione quasi unanime. Abbiamo l’opportunità di utilizzare parte del finanziamento del Next Generation EU, altrimenti Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Questo non è una “riforma”, ma uno strumento finanziario per facilitare cambiamenti non procrastinabili nel Servizio Sanitario Nazionale. Questo sia per la parte ospedaliera che per quella territoriale, vedi il DM 77, ma non è una “riforma”.
Adesso è arrivato il momento di mirare più in alto: una ridefinizione organica del sistema salute, con la partecipazione di soggetti istituzionali, e non, che operano in tale contesto o che lo influenzano in modo determinante. È su questo che oggi dovremmo spingere l’azione di questo o di futuri governi.
La sfida di una “riforma” non è tanto scriverla (gli articoli, i commi, gli atti attuativi) quanto la “visione di partenza”, le dimensioni da considerare, gli effetti da ottenere per quanto concerne:
- Stato di salute, (cioè una popolazione più sana possibile),
- Valore sociale (cioè senso di protezione e sicurezza dei cittadini),
- Partecipazione attiva,
- Mitigazione disuguaglianze
- Volano di progresso economico del Paese.
Per farlo è richiesta una capacità di gestione all’altezza dei grandi cambiamenti epidemiologici, demografici, sociali e tecnologici che caratterizzano il momento storico. Guardare al passato serve solo per ricordarci dei principi, ma non per individuare i modi ed i mezzi.
Consideriamo, primo esempio tra tutti, il fenomeno più dinamico e massivo del momento: la rivoluzione digitale, finanziata peraltro anche dal PNRR. Le applicazioni digitali nuove (IA) o rinnovate (FSE) pensiamo di implementarle su processi organizzativi rinnovati o su quelli attuali? A questo proposito, siamo sicuri che metodologie e strumenti importanti in una certa fase storica, siano ancora l’approccio giusto per oggi e domani? A queste domande dobbiamo rispondere presto, con determinazione e in base alle evidenze.
Il DM 77 non spicca per innovatività dei modelli organizzativi e pone un interrogativo non risolto: quali figure professionali e con quali modalità contrattuali popoleranno le strutture che prevede? Sarà necessario rimuovere modelli organizzativi radicati che hanno ormai assunto un vero e proprio ruolo di disfunzioni. La “riforma” resta quindi un’ipotesi.
Se ne parla e se ne scrive, ma le ipotesi su cui si ragiona stanno tutte nella categoria delle innovazioni “marginali”. La “riforma”, se tale vuol essere, sarà necessariamente un’innovazione “dirompente”. L’approccio e le regole per procedere sono profondamente diversi (e così pure l’impatto) rispetto all’innovazioni marginali.
È comprensibile che prendere una direzione di questo tipo spaventi, tanto da far nascere alleanze tra onesti “difensori” del SSN, inconsapevoli conservatori che lo condannano all’estinzione, e coloro che, a vario titolo, pensano di mantenere, o accrescere, posizioni di piccolo o grande potere e temono per un vantaggio che potrebbe andare perduto (“rendite di posizione”).
Abbiamo già scritto come dobbiamo guardare al futuro (Quotidiano Sanità 23 gennaio 2023): “Dagli Osservatori fragilità/cronicità alla stratificazione dei bisogni delle popolazioni” e cioè “… Applicando metodologie e strumenti ad hoc è possibile fare scelte di policy sanitaria e socio sanitaria secondo un approccio “One Health”, centrato sulla persona e su target omogenei di pazienti. Questo recuperando appropriatezza, efficacia ed efficienza delle cure, garantendo equità e universalismo. Il che comporta fare programmazione dal lato di una lettura della domanda di sanità e salute e non più solo dal lato dell’offerta che si vuole autoriprodurre”.
Concentriamoci ora su 3 punti chiave di una futura “riforma”. Non sono i soli ma sono quelli che possono generare maggiore valore:
- Il ruolo dei pazienti, dei cittadini e delle comunità;
- La cura del personale che opera nel servizio sanitario;
- La sanità digitale.
La “riforma” definirà gli scopi e la cornice; cioè che la sanità è e sarà sempre più un sistema multistakeholder. Indicherà i passaggi necessari, cioè abbandonare una politica basata sul “governare” l’esistente per una orientata alla “governance” non solo rivolta a gestire i cambiamenti necessari ora, ma in grado, nel tempo, di “anticipare” quelli futuri. Un’operazione politica di largo respiro, così come avvenne 45 anni fa, che genererà benefici tangibili e non un futile “maquillage”.
I pazienti, i cittadini e le comunità nel sistema sanitario “riformato”
Il faro per la riforma dovrà essere la convinta affermazione dell’“assistenza centrata sul paziente”, così come per la prima volta prospettata del Picker Institute e dalla Harvard Medical School che nel 1987. Lo fecero utilizzando molteplici focus group (pazienti dimessi di recente, familiari, medici e personale ospedaliero non medico) in combinazione con una revisione della letteratura pertinente e così definirono i “7 principi primari dell’assistenza centrata sul paziente, successivamente ampliati per includere un ottavo” (“accesso alle cure”).
Gli “8 principi di assistenza centrata sul paziente” sono: rispetto dei valori, delle preferenze e dei bisogni espressi dei pazienti; coordinamento e integrazione delle cure; informazione e istruzione; comfort fisico; supporto emotivo e attenuazione della paura e dell’ansia; coinvolgimento di familiari e amici; continuità e transizione e accesso alle cure.
Il coinvolgimento dei pazienti e dei cittadini sta mettendo radici. Le competenze locali stanno crescendo, come mostrano numerose esperienze a livello internazionale e nazionale. Si parla di ecosistemi; sono comunità di individui che interagiscono con il loro ambiente e allo stesso tempo un tutto e una parte di un sistema più ampio.
Una prospettiva ecosistemica prevede il coinvolgimento dei pazienti e dei cittadini e ci ricorda che l'assistenza sanitaria, nella sua essenza, riguarda le relazioni tra le persone. Come affermava Peter Block "… sistemi organizzati e professionalizzati sono capaci di erogare servizi, ma solo una comunità è capace di erogare cura".
In tale prospettiva si afferma l'idea che queste relazioni interagiscono con, e sono influenzate da, il loro ambiente (la comunità, ambienti economici e politici, organizzazioni e sistemi sanitari) così come la convinzione che ogni individuo apporta competenze preziose e complementari (ad esempio, la conoscenza basata sull'esperienza di vivere con una malattia di un paziente; le capacità diagnostiche e l'esperienza clinica di professionista sanitario, i metodi d’indagine di un ricercatore, l'esperienza di gestione di un manager).
Un esempio di ecosistema nel nostro ordinamento potrebbe essere il Distretto, ma non come lo abbiamo conosciuto e cioè una mera articolazione organizzativo-funzionale dell’Azienda Sanitaria Locale sul territorio. Un modello dove i servizi vengono “calati” secondo silos organizzativi, anziché venir progettati e costruiti a partire dalla partecipazione, dai bisogni e dalle risorse delle diverse comunità che si differenziano per criteri geografici, sociali, culturali, organizzativi ed epidemiologici.
Parliamo di un Distretto che divenga “agenzia per la salute” di un territorio dato, in grado di “leggere i bisogni della popolazione oggi e in divenire”, attuando metodologie e strumenti utili per “la stratificazione dei bisogni della popolazione residente”, come scritto nell’ incipit del DM77.
Ci vantiamo di essere un Paese dove la presenza del volontariato è forte e diffusa. Però i cittadini che lo fanno, così come tutte le organizzazioni del Terzo Settore, vengono considerati in chiave eminentemente prestazionale. Non se ne riconoscono le potenzialità di innovazione, di anticipazione, di capacità di incarnarsi nella comunità locale partecipando e portando ricchezza nell’ecosistema. È compito di una futura “riforma” rimediare a questa sottovalutazione.
Non mancano ormai esempi, anche in letteratura, dell’ampia varietà di ruoli che i pazienti possono svolgere nel sistema sanitario: pianificazione, progettazione, consulenza, indagine, valutazione e formazione. Sempre più spesso, le istituzioni sanitarie chiedono ai pazienti e ai familiari non solo di essere una "voce intorno al tavolo", ma di assumere ruoli di “leadership”.
Una nuova “riforma” del sistema sanitario richiede più di una rivoluzione culturale, una di queste deve basarsi sulla consapevolezza che esistono forme di conoscenza che possono essere complementari e che le competenze non sono strettamente riservate ai professionisti. I pazienti e i familiari possono agire come mediatori di conoscenza e ridefinire le priorità apportando soluzioni pragmatiche alle sfide del sistema sanitario.
Se coloro che si preoccupano del declino del sistema sanitario non sono convinti che questo sia un pilastro e non sono pronti, allora i cittadini cercheranno soluzioni individuali, il servizio pubblico si avvierà verso un razionamento delle sue prestazioni, la produzione di salute non progredirà e la spesa globale per le cure aumenterà.
C’è oggi un pensiero politico, culturale ed economico orientato a spingere in questa direzione che è pericolosa per il bene comune, ma che può ancora essere contrastata efficacemente.
I medici e gli infermieri nel sistema sanitario “riformato”
Al 2021 il personale dipendente del SSN (ASL, compreso il personale degli Istituti di Ricovero a gestione diretta, Aziende Ospedaliere, Aziende Ospedaliere Universitarie integrate con il Ssn e Aziende Ospedaliere integrate con l’Università) ammontava a 617.246 unità di cui 69,1% donne e 30,9% uomini. Rispetto al 2020 il personale risultava diminuito di 220 unità (-0,03%).
Le unità di personale con profilo infermieristico costituivano il 59,2% del totale del ruolo sanitario, i medici e gli odontoiatri il 22,9% mentre il 17,9% era rappresentato da altre figure professionali sanitarie (dati al 31.12.2021 - fonte Ministero della Salute).
Il rapporto tra medici ed infermieri nel SSN è rimasto pressoché stabile nell’ultimo decennio e vede nel 2020 la presenza di 255 infermieri ogni 100 medici. Era ed è evidente la necessità di formare un numero maggiore di infermieri rispetto al passato.
Osservando che nell’anno accademico 2022-2023 i posti a bando per Medicina e Chirurgia sono stati 14.470 rispetto ai 17.997 della professione infermieristica ci rendiamo conto come il rapporto numerico sia destinato addirittura a peggiorare con conseguenze che saranno gravi. Per altro il rapporto tra posti messi a bando per infermieri e per medici è passato da 1,85 nel 2009-2010 a 1,31 nel 2022-2023. Errore di programmazione o risultato di accodi di potere anche “accademico”?
L’articolo di Quotidiano Sanità “ANAAO: Tra pensionamenti e licenziamenti previsti 40mila medici in meno entro il 2024” elenca i principali fattori che determineranno la carenza di medici specialisti sono:
- Pensionamenti - Nel triennio 2019-2021 sono andati in pensione circa 4.000 medici specialisti ogni anno per un totale di 12.000 camici bianchi. Nel triennio 2022-2024 andranno in pensione circa 10.000 medici specialisti. Quindi in 6 anni IL SSN perderebbe 22.000 medici specialisti ospedalieri per pensionamenti.
- Licenziamenti - A impoverire le corsie si aggiunge il fenomeno della fuga dagli ospedali. Dal recente studio ANAAO risulta che dal 2019 al 2021 hanno abbandonato l’ospedale circa 1.000 camici bianchi per dimissioni volontarie. Se il trend dei licenziamenti fosse confermato anche nel triennio successivo, si licenzierebbero ulteriori 9.000 medici dal 2022-2024. Tra pensionamenti e licenziamenti si arriverebbe a una perdita complessiva di 40.000 medici specialisti entro il 2024.
- Nuove attività che richiedono una implementazione delle dotazioni organiche con medici specialisti.
Nel nostro piccolo abbiamo ricostruito i dati dei medici ed infermieri laureati dal 2011 al 2021, dati confrontati con gli standard UE consigliati, come segue:
Dai dati pubblicati da OCSE si osserva che l’Italia ha (ancora) un numero di medici per mille abitanti che è il più alto di quello di Olanda, Slovenia, Belgio e Francia. Un problema vero per l’Italia è “l’elevata età media dei medici” con il rischio, anzi la certezza, che avremo una congiuntura difficile, frutto di errate politiche di programmazione.
La soluzione esiste ed è un temporaneo innalzamento del numero degli studenti di medicina, ben calibrato grazie ad una buona analisi della futura domanda nelle diverse specialità. Attenzione però perché potremmo nuovamente sbagliare: nel 2021-2022 sono state bandite 14.378 borse di specializzazione, senza segnali di riduzione nel prossimo futuro. Già nel 2020 e nel 2021 il numero di medici che il sistema ha formato è stato maggiore di quello degli infermieri e la previsione al 2037, mantenendo questi ritmi, ci indica che potremmo avere un surplus di circa 37 mila medici.
Nel frattempo gli infermieri continueranno a mancare e questo rimarrà il nostro più grave problema. Questo “al netto” della fuga degli operatori sanitari pubblici verso l’estero e verso la sanità privata.
Ci sembra ovvio che nei futuri team di cure di prossimità debbano inserirsi i medici di medicina generale: magari con una nuova formazione, che dia la stessa dignità in termini di specializzazione alla medicina generale, attirando così più giovani neolaureati.
A quanto si legge nel documento del European Observatory on Health Systems and Policies “Strengthening primary care in Europe: How to increase the attractiveness of primary care for medical students and primary care physicians? “l’imperativo di rafforzare le cure primarie non è solo un nostro problema, dato che molti altri Paesi in Europa lottano con le carenze e la cattiva distribuzione geografica dei medici di medicina generale.”
Una delle cause sembra essere la percezione tra gli studenti di medicina e i medici che la medicina generale non è un'opzione di carriera "attraente".
Nella maggior parte dei contesti ciò è rafforzato da differenze retributive e da uno status professionale, e quindi sociale, percepito come più basso tra i medici generici che non tra i medici specialisti. Si tratta, tra l’altro, di una percezione inesatta perché nelle indagini sull’apprezzamento o meno dei servizi sanitari in Italia i medici di famiglia risultano regolarmente al primo posto.
Le strategie che, in modo provato, sono efficaci per migliorare l'attrattiva dei medici per l’assistenza sanitaria di base sono per il momento frammentarie, ma una serie di interventi hanno dimostrato di funzionare se si cambia la formazione e le condizioni di lavoro, si innovano i modelli di cure primarie e si migliora la pianificazione dell’impiego della forza lavoro.
Una “riforma” deve disegnare un contesto dove, in piena sinergia tra il livello centrale e quelli locali, si costruiscono architetture organizzative guardando a quelle esperienze che hanno avuto successo e che possano essere riprodotte nel nostro contesto. Tra queste ci sono anche evidenze che sono possibili strategie che possono aiutare ad attirare i medici nelle aree rurali e remote.
Questi interventi, necessari ed urgenti, sono stati attuati, a quanto sappiamo, solo in altri Paesi. Sono mirati e diversificati per coprire le varie fasi della vita professionale di un medico di famiglia, per migliorare l'equilibrio tra lavoro e vita privata e ridurre l'isolamento professionale.
Il rafforzamento della pratica della medicina generale richiede quindi una strategia sfaccettata che impieghi una serie di misure, che si rivolga non solo agli studenti di medicina e ai medici, ma anche agli infermieri e ad altre professioni, ai pazienti e al pubblico in generale. L’elaborazione di tale strategia richiede una buona comprensione del contesto locale e la capacità di valutare puntualmente l’efficacia dei vari interventi.
Questo approccio, promettente in termini di risultati, è ostacolato dal nostro attuale assetto normativo e dai nostri schemi contrattuali rigidi e non si confà agevolmente alla cornice di contrattazioni nazionali.
La lettura dell’articolo “The Race to Retain Healthcare Workers: A Systematic Review on Factors that Impact Retention of Nurses and Physicians in Hospitals” (Neeltje de Vries et Al. - Journal of Health Care Organization, Provision, and Financing - 2023) ci conferma come la carenza di operatori sanitari sia un problema crescente in tutto il mondo e che i principali fattori per decidere di scegliere (e poi non lasciare) il posto di lavoro risultano essere: la soddisfazione che ne deriva, lo sviluppo della carriera e l'equilibrio tra lavoro e vita privata.
Come ci ricorda Daniele Piacentini, docente dell’Università Cattolica e Direttore Risorse Umane del Policlinico Gemelli, “gestire professionisti implica un confronto diretto con persone con elevato grado di istruzione, in possesso di conoscenze specialistiche non facilmente acquisibili e valutabili dall’organizzazione, coscienti che il ruolo ricoperto è cruciale per l’organizzazione e per assicurare qualità dei percorsi di diagnosi e cura”.
La motivazione è soprattutto determinata da fattori “intrinseci” al lavoro (qualità e caratteristiche della attività, riconoscimento, possibilità di crescita), mentre quelli “estrinseci” (retribuzione, ambiente di lavoro sicuro, benefit) hanno al massimo un effetto non-demotivante, possono essere leve in grado di funzionare nel breve periodo, generano la soddisfazione che nasce dal riconoscimento del proprio valore, importante, ma non sufficiente a medio-lungo termine per stabilizzare il sistema. I riconoscimenti economici sono ragionevolmente utili ma non determinanti.
I professionisti sono motivati principalmente da lavori interessanti, dalla possibilità di crescere, di apprendere cose nuove, dal lavorare in contesti dove possono accedere a tecnologie che gli consentono di sviluppare le loro competenze, raggiungere risultati professionali appaganti.
La motivazione dei medici e degli infermieri che lavorano nelle strutture pubbliche è ai minimi storici e il malessere è così diffuso e profondo che pensare di andare avanti in queste condizioni è impossibile.
I professionisti sanitari non pretendono subito la soluzione, ma una prospettiva credibile, precisa e decisa sì. Una “riforma” del sistema deve creare e facilitare le condizioni, ma anche esigere che le organizzazioni su cui il sistema si articola abbiano la cultura gestionale adeguata. È probabilmente una sfida che riguarda tutta la Pubblica amministrazione, ma che è vitale per le aziende sanitarie se vogliono avere un senso in futuro.
Lasciar permanere la sfiducia è un danno che può rivelarsi irreparabile, travolgere coloro che hanno ruoli di responsabilità nella gestione e nelle scelte politiche della sanità e generare danni gravi ai cittadini e avere conseguenze negative sullo sviluppo economico e civile del Paese.
C’è poi un altro punto: ci sono due schieramenti opposti che argomentano sulla necessità che i medici di medicina generale rimangano indipendenti o diventino dirigenti del SSN.
La discussione è sostanzialmente futile perché non è uno status piuttosto che l’altro che può garantire la loro motivazione, ma un adeguato contesto di politiche e di gestione dei territori o, per dirla meglio, delle comunità.
I medici di medicina generale vengono confinati sostanzialmente nella dimensione di un rapporto di prestazione professionale. La “riforma” che verrà dovrà finalmente decidere che entrano a far parte di una comunità che condivide valori, obiettivi e cultura.
Una comunità nella quale non solo è consentito, ma anzi è favorito, un alto grado di libertà nel lavoro (e quindi di responsabilità), con possibilità di applicare le competenze in modo discrezionale, seppur in maniera cooperativa, nel rispetto delle linee guida e dei valori al fine di erogare cure di qualità, in modo efficiente e sostenibile. Il ruolo della futura “riforma” è disegnare la cornice istituzionale che non solo consenta, ma favorisca questo modello.
La salute digitale nel sistema sanitario “riformato”
Chi pensa che digitalizzare comporterà di fatto riformare il sistema sanitario si illude.
Solo chi opera quotidianamente all' interno del sistema sanitario è in grado di suggerire le linee guida a cui gli informatici e gli ingegneri gestionali devono ispirarsi nella fase della progettazione digitale. Se i modelli organizzativi rimangono immutati niente di utile avverrà.
Transizione digitale non significa affatto digitalizzare l'esistente.
Ciò che serve in via preliminare è cambiare gli assetti organizzativi in modo da approfittare dei vantaggi offerti dalle tecnologie digitali.
L'aspetto più dirompente sarà la possibilità della connettività trasversale.
Essa elimina alla radice una serie di confini verticali e mette in crisi le isole autarchiche, ovvero, i “silos”.
Se le immagini diagnostiche che ormai informalmente (ma non sistematicamente e ufficialmente) viaggiano su WhatsApp sono un esempio concreto di come può cambiare la comunicazione tra paziente, medico di famiglia, case di comunità, ambulatori specialistici e/o reparti ospedalieri, allora è opportuno che essa vada regolata presto per averne un uso sicuro.
Vaste condivisioni di dati contribuiscono a creare le condizioni perché mega banche di dati essenzialmente “in cloud” relative alle casistiche più svariate siano d’aiuto per migliorare i risultati clinici e la ricerca scientifica in tanti settori specialistici della medicina.
Vitale sarà però assicurare la “cybersecurity” per evitare che i dati sensibili vengano copiati per finalità illecite. Nel “dark web” esiste un mercato nero di cartelle cliniche che, specialmente nei Paesi in cui le cure sono basate su sistemi sanitari assicurativi, permette agli operatori di personalizzare l’offerta alzando in modo esorbitante i prezzi delle polizze sui pazienti con le più gravi patologie.
Non è facile conciliare a livello micro e macro questa grande condivisione di dati con gli imperativi di sicurezza e privacy, ma è una delle grandi sfide da vincere con la più stretta collaborazione tra medici e ingegneri. Questo dovrà essere uno dei cardini della futura “riforma”.
Un secondo aspetto, molto importante, è utilizzare le nuove tecnologie per irrobustire le strutture sanitarie territoriali, il rapporto ospedale territorio e la stessa cooperazione inter-ospedaliera.
Non c' è più la barriera della distanza e ci sarebbe la drastica riduzione - ma purtroppo spesso solo in teoria - dei tempi di attesa.
A partire dai medici di famiglia e dalle farmacie gli scambi informativi possono essere calibrati su quanto si può fare in casa, negli ambulatori di medicina generale e specialistica e nei casi clinici in cui è necessario il ricovero in ospedale.
Queste scelte strategiche non spettano agli informatici, ma ai dirigenti sanitari e in una certa misura alle politiche del Ministero della Sanità e delle Regioni.
In sostanza la rivoluzione digitale paga in termini di efficienza/efficacia solo se una “riforma” farà sì che il sistema venga profondamente riorganizzato su basi diverse dalle attuali.
In sintesi possiamo affermare che:
- la salute digitale incrementa l'equità sanitaria, ma solo per coloro che hanno accesso alla tecnologia;
- per sfruttare bene la salute digitale per migliorare l'equità sanitaria, dobbiamo migliorare l'equità digitale, un compito vasto che vale anche per i responsabili politici;
- se, infine, non reindirizzeremo le risorse umane e le capacità liberate dalla salute digitale e dall'intelligenza artificiale verso il miglioramento dell'assistenza e sceglieremo invece di risparmiare sui costi operativi, il sistema non cambierà in meglio.
Nuove metriche per il sistema sanitario “riformato”
In considerazione delle potenzialità che le tecnologie digitali ci offrono e fra queste, ultime, ma veramente dirompenti, le applicazioni dell’intelligenza artificiale, per la raccolta, l’elaborazione e guida delle scelte operative ed allocative, essere fermi ai flussi amministrativi, o poco più, è del tutto superato.
Le piattaforme 4.0 consentono ormai di immagazzinare enormi quantità di dati, purché digitali, prodotti nelle reti di cura, la loro elaborazione in tempi praticamente immediati e la loro fruizione da parte di tuti gli operatori in rete. Inoltre, gli algoritmi di IA possono elaborare i dati per gruppi omogenei di pazienti per patologie prevalenti, possono fare data analytics e analisi prospettiche indirizzando le scelte organizzative e gestionali verso una allocazione ottimale delle risorse disponibili.
Con grande rispetto per il ruolo che ancora svolgono (e anche per la partecipazione sentimentale che deriva dall’essere stati presenti e partecipi nella fase della loro creazione e messa in uso) dobbiamo affermare però che sia il monitoraggio dei LEA che il Piano Nazionale Esiti necessitano di un salto nel presente. Sono presidi di grande valore e come tali meritano di accedere a fonti di dati all’altezza del loro compito, che sarà cruciale anche in futuro. L’era dei dati “amministrativi” è alla fine. Se non operiamo questo cambiamento quale governance sarà mai possibile e quanti rischieremo di non essere capaci di fare scelte anticipatorie da tradurre in vantaggi per i cittadini?
Leggendo il rapporto del Ministero della Salute dal titolo “Monitoraggio dei LEA attraverso il Nuovo Sistema di garanzia – Metodologia e risultati dell’anno 2020” veniamo a conoscenza di risultati sorprendenti come quello che per quanto riguarda l’assistenza distrettuale quasi tutte le Regioni hanno migliorato la propria performance rispetto al 2019, secondo i calcoli basati sul Nuovo Sistema di garanzia … Questi risultati ci lasciano stupiti perché sappiamo tutti come con la pandemia molte prestazioni sono state rimandate, allungando in modo consistente i tempi di attesa e dunque la qualità delle cure. C’è quindi qualcosa che non funziona: o soffriamo di uno stato d’illusione collettiva, per cui le difficoltà di molte Regioni a garantire un’assistenza sul territorio adeguata durante la pandemia sono state un’invenzione dei media, oppure questo sistema di monitoraggio non funziona più ed è come un barometro che “punta sempre al bel tempo, anche quando piove” (Massimo Bordignon e Gilberto Turati - la voce.info)
Se leggiamo anche l’ultimo report AGENAS sugli ospedali italiani, “classificati” per aderenza o meno a set di indicatori, si avverte la mancanza di una visione prospettica e innovativa e si scade da una prospettiva di analisi del posizionamento e di stimolo alla ricerca della qualità ad una semplice “graduatoria”. Un’operazione troppo semplificata e decontestualizzata per essere davvero utile per il miglioramento della qualità dei servizi e la sicurezza dei cittadini, finalità per cui PNE nacque.
Conclusioni
Pensiamo che tutti siamo convinti che nulla è ineludibile e tutto dipende dalle nostre scelte. Corriamo il rischio di fare scelte riduttive non per una questione tecnica, ma politica. Può accadere, nella nostra così come in altre democrazie, quando governate da rappresentanze politiche di fatto di minoranza rispetto alla totalità dei votanti possibili, che ci sia una visione parziale della realtà.
Per una buona “riforma” occorre che l’azione di governo sappia valorizzare le competenze dei territori, coinvolgendo operatori, volontari e comunità perché abbiamo bisogno di arrivare ad una “riforma” del SSN (e dei SSR) partecipata e condivisa. Abbiamo proposto alcuni punti per dire che c’è molto da ripensare e da fare, ma anche che è possibile farlo. Opinioni, suggerimenti e incoraggiamenti sono state espressi in più sedi.
Adesso risponda chi ne ha l’onere, passi all’azione e sappia farlo con uno sguardo ampio e con la volontà di comprendere la complessità contemporanea. Sappiamo che le riforme vere, quelle che hanno una buona probabilità di funzionare hanno tempi medio lunghi, quindi…. è ora di avviare il confronto e cominciare a ragionare di “riforma”.
Giorgio Banchieri, Segretario Nazionale ASIQUAS, Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Università “Sapienza” di Roma.
Laura Franceschetti, Professoressa presso DiSSE, Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Università “Sapienza” di Roma.
Andrea Vannucci, Socio ASIQUAS, Professore a contratto DISM Università di Siena, socio Accademia Nazionale di Medicina, Genova.