La sanità in generale viene intesa come nucleo attivo dell’assistenza alla persona nel senso complesso. Proprio per questo occorrono oggi grandi capacità per ridisegnarla. Una ineludibile necessità atteso il suo stato di decadentismo progressivo accentuato dalle cicatrici da Covid.
Le professionalità da implementare
Le attuali competenze a suo supporto vanno necessariamente arricchite con veri professionisti della rilevazione e della programmazione. Due step sino ad oggi trascurati, meglio sviliti se non addirittura fraintesi, perché affidati a componenti professionali non propriamente avvezze alla constatazione del bisogno, alla valutazione del rischio e alla individuazione delle relative soluzioni.
Troppe le competenze mancanti, su tutte quelle dei sociologi, degli urbanisti, degli ambientalisti, degli statistici, degli ingeneri dei trasporti, dei pedagogisti, degli esperti in sicurezze e così via. Si è fatto da anni tutto “in casa”, utilizzando i vecchi arnesi, supponendo di assumere i dati così come forniti senza verifica alcuna, spesso nella logica della acritica continuazione di ciò che c’era.
Insomma, per far bene le cose necessitano esperti della predisposizione di piani di rilevazione del fabbisogno epidemiologico e dei rischi epidemici e, di conseguenza, della programmazione degli eventi attuativi e risolutivi. Un mestiere difficile che sappia tenere conto delle diversificazioni territoriali e demografiche, degli interventi speciali da assicurare nei siti soggetti ad un particolare rischio epidemico ed endemico. Il tutto tenendo anche conto della cifra di immigrazione con la quale dovere fare i conti in termini di maggiore e diverso intervento salutare, principalmente di carattere preventivo e di contrasto alle malattie fino a poco tempo fa ritenute debellate nella società civile nazionale.
In buona sintesi, bisogna finirla, nell’interesse della Nazione in via di diversificazione, di confondere gli esperti di programmazione con i meri assemblatori di notizie spesso assunte in modo improprio, con un acritico ricorso a saldi epidemiologici dall’incerta provenienza e imputazione, e da assertori di logiche avveniristiche altrettanto impropri perché abilitati ad esercitare un siffatto ruolo senza alcuna expertise.
Ricominciamo dal PSN e dalla programmazione multilivello
Va ripreso il Piano Sanitario Nazionale che non c’è più dal 2006. Una omissione che la dice lunga, che costituisce la prova della irresponsabilità dei governi (tutti) che si sono succeduti. Questo è il sintomo di come la tutela della salute è trattata male da decenni e di come è strumentalizzata come prodotto da spendere ad uso e consumo della politica: conta più una promessa alla quale se ne aggiunge un’altra senza che la prima sia realizzata e così via e senza una prestazione essenziale resa esigibile ovunque. Ciò da almeno venti anni.
Sulla assistenza erogata, non percepita dalla collettività secondo i dettami costituzionali, si è fatta una gran confusione. Basti pensare ai disastri concretizzatisi a seguito del DM 70 del 2 aprile 2015 e a quelli che si registreranno con le logiche distributive dell’assistenza territoriale del DM 77 del 23 maggio 2022, senza dimenticare che la messa a terra della Mission 6, di entrambe le componenti (1 e 2), del PNRR genererà un oceano di disservizi, dal momento che mancano i quattrini per attivare le strutture di prossimità (Case e ospedali di comunità e Cot).
Insomma, il tema della sanità - che deve diventare esatta ad ogni livello territoriale e capace di rispondere all’appello sociale di attuale abbandono - deve trovare residenza e progetto in una accurata programmazione, fondata sul fabbisogno rilevato e non già supposto. Occorre farla intervenendo sulle tre macroaree della prevenzione, della assistenza territoriale e di quella ospedaliera ed elaborarla in modo tale da essere pronta a recepire ogni necessaria correzione in progress. Ma soprattutto bisogna pensarla sulla base dei cambiamenti che sono intervenuti nella composizione sociale con gli anziani in forte ascesa, i deboli in incremento, i disabili sempre accollati esclusivamente alle famiglie, spesso pure non abbienti.
Al riguardo, va evitato l’orrore commesso: quello di supporre che il cambiamento reale passasse dalla mutevolezza delle sigle di riferimento (Saub, Usl, Asl, ASST, Asp e così via) senza mutare la ratio esistenziale di una offerta, che dovrà essere finalmente sociosanitaria. Ciò nella sua massima integrazione che dovrà:
partire dal territorio e rintracciare la persona sana nel proprio domicilio e nel luogo di lavoro;
riconoscere il fabbisogno, cui dovere dare risposta, e aprire le porte delle strutture di base, il distretto di rinnovata dimensione, e di quelle intermedie;
nell’insufficienza delle diagnosi e delle cure, rendere ospitale e risolutiva l’offerta ospedaliera mediante il ricovero assistito anche dalla medicina di famiglia di riferimento della persona bisognosa.
I difetti da colmare e le buone pratiche da pretendere ovunque
Di tutto questo poco o nulla si è finora fatto sul piano sistemico, lasciando residuare le cose per decenni con: il rimpianto persino delle attività assicurate ante 833/1978 dagli ufficiali sanitari e le condotte e con i difetti peggiori delle casse mutue, in confronto alle quali si è recuperata l’universalità dell’assistenza; le strutture di assistenza specialistica pubblica praticamente surrogata dagli accreditati privati per difetto di assenza qualificata della offerta a prestazione diretta; con un sistema ospedaliero poco recettizio e attrattivo, fatta eccezione per il buon livello esercitato dagli IRCCS (51) e dalla spedalità privata accreditata e contrattualizzata, entrambi esperti nell’attrarre utenza in mobilità attiva.
Ritornando al problema dell’inefficienza del sistema della salute, esso va risolto con la ripresa di una tempestiva intelligente programmazione che sappia frenare, facendo conto altresì delle risorse del PNRR, l’impoverimento dell’attrazione della offerta pubblica e rilanciarla in modo tale da rigenerare un sano regime di concorrenza amministrata con quella privata accreditata. La sua strutturazione ordinaria, quella fatta di aziende sanitarie, territoriali e ospedaliere, deve quantomeno raggiungere le attuali performance degli IRCCS, sia pubblici che privati, e quella dei migliori centri universitari, impegnati anche nella ricerca e didattica.
L’anziano una risorsa da proteggere e sulla quale investire
Dunque, urge una programmazione che: a) tenga conto delle aggressioni pandemiche sopportate e delle epidemie possibili a ripetersi; b) sappia disegnare il Ssn che occorre ad un Paese a rischio di ritrovarsi con una Nazione in naturale evoluzione, considerato il rapporto nati/deceduti ma con gli anziani in crescita esponenziale e l’immigrazione divenuta strutturale; c) individui metodologie di autofinanziamento attraverso l’effettuazione di investimenti sul territorio che contribuiscano allo star meglio domani attraverso il ricorso a metodiche diagnostiche di avanguardia effettuate massivamente allo scopo di evitare i danni causati dalle malattie “demolitive”; d) proponga stratificazioni di accesso alle prestazioni sociosanitarie garanti comunque di conservazione gratuita per i non abbienti.
Tutto questo cozza, ovviamente, con l’aziendalismo fine a se stesso divenuto oramai la peggiore costanza con la conseguenza che con le variabili anagrafiche intervenute farà molti più danni di quanti ne abbia fatto dal suo insediamento.
Ciò soprattutto perché non ha imparato a considerare la persona anziana una risorsa vera e propria, quella che genererà il PIL del welfare assistenziale ma anche che determinerà i relativi costi di mantenimento.
La necessità è, pertanto, quella di non propendere per un aziendalismo votato a rottamare “l’auto di annata” (l’anziano ultrasettantenne), così come in cinico uso in alcuni Paesi dell’Europa fisica che interdicono prestazioni costose ai nonni (del tipo, l’emodialisi e le cure oncologiche costose), bensì per quel sistema che “le ama, le ripara, le rende efficienti e ammirevoli, le riabilita alla circolazione”. Ad essi va dedicata la medicina di prima istanza sino a coccolarli, in una alla rete di prevenzione delle malattie seppure votate a realizzare i risultati a distanza di anni. Così si costruisce la Nazione della civiltà.
Esige cambiare la ratio
Una tale esigenza, che varrà anche in termini di sostenibilità del Ssn, comporterà una revisione tecnico-culturale dell’approccio alla costruzione di una nuova assistenza per la Salute, che dovrà peraltro essere segnatamente integrata nell’erogazione dei nuovi Lea, così come determinati il 12 gennaio 2017 aggiungendo in essi quelli che erano i Liveas per un totale di 71 pagine, da implementare con i Leps individuati nella legge di bilancio per il 2022 (commi 159-170).
Un lavoro improbo che, proprio perché da doversi riprendere dopo una vacatio di oltre 15 anni, dovrà affrontare la definizione degli step attraverso i quali le diverse Regioni dovranno poi affrontare la programmazione dei rispettivi Ssr. Ciò con le difficoltà che comporterà il dovere tenere conto delle variazioni da apportare al DM70/2015, dell’attuazione del DM77/2022 e della messa a terra delle risorse del PNRR.
L’uovo o la gallina, il primo dubbio da risolvere
Su tutto, dovrà sciogliersi il dilemma irrisolto dell’uovo e della gallina. In sintesi, in presenza di una regolazione ospedaliera del 2015 sbagliata anche sul piano ideologico oltre che strategico, di una programmazione dell’assistenza territoriale che nel DM 77 riscontra più limiti che soluzioni, di un PNRR che elargisce risorse per ciò che è oramai obsoleto: dovrà essere riscritta prima la programmazione dei territori ovvero quella ospedaliera? La tifoseria della prima sarà di certo prevalente, non fosse altro per perseguire due scopi: quello di adeguare l’assistenza alle esigenze della trasformata popolazione cui necessitano prestazioni domiciliari e tele-fornite a distanza; quello di evitare il protrarsi di strutture ospedaliere tradizionali, spesso sovrabbondanti e certamente da rivedere alla luce della istituzione degli ospedali di comunità e della riscrittura dei fondamentali dell’assistenza integrata in genere. Di certo, bisogna evitare che la distribuzione strutturale dei presidi assistenziali, qualunque essi siano, venga perfezionata come si giocasse al Monopoli, così come invero avvenuto in quasi tutto il Paese.
Ettore Jorio