Circa tre mesi fa mi decisi a pubblicare su questo giornale una lettera aperta alla sanità (QS 30 gennaio 2023). L’intenzione, usando un espediente della retorica, era quella di parlare a suocera perché nuora intendesse cioè di parlare alla sanità certo ma per parlare principalmente al sindacato.
Tutti conoscono le difficoltà in cui versa il sindacato nella sanità e tutti conoscono le sue ben note contraddizioni, soprattutto quelle legate ai tavoli inconcludenti offerti dal ministero competente, ciò non di meno esso resta, soprattutto rispetto alla partita sanità un soggetto politico di straordinaria importanza.
Oggi considerando il quadro generale non vedo oltre al sindacato altri soggetti in grado di mettere in campo una opposizione nei confronti delle politiche anti-sanitarie del governo Meloni.
Sta prendendo forma ma lentamente una sorta di opposizione movimentista della sinistra radicale e sparse qui e le iniziative sociali dei cittadini in qualche modo organizzati che, per primi, hanno cominciato a mangiare la foglia su quello che sta bollendo in pentola. Gli ordini mi sembrano abbastanza defilati. Alla fine restano enti sussidiari dello Stato.
Nella mia lettera aperta alla sanità, invitavo esplicitamente il sindacato ad andare oltre le mobilitazioni di rito, quelle per lo più di carattere settoriale, quindi oltre le solite rivendicazioni e di giocare, senza se e senza ma, contro il governo la carta dello sciopero. Cioè di dichiarare apertamente un conflitto politico per definizione non riducibile.
Per quando la natura politica del sindacato sia per lo più negoziale e compromissoria, personalmente ritengo che su certi caposaldi politici e morali qualsiasi sindacato, sia esso confederale o categoriale, non possa che essere intransigente.
In sanità, come ho già avuto modo di spiegare parlando della morte dell’albatros (QS 8 aprile 2023) vi sono valori non negoziabili come quelli costituzionali quindi i diritti che poi sono anche i valori alla base di qualsiasi deontologia professionale ma anche di qualsiasi servizio “statale” quindi relativi alla sfera pubblica e al bene pubblico.
In sanità il bene pubblico della salute, individuale e collettiva, non è negoziabile. Come non può essere negoziabile la natura pubblica del servizio. Come non può essere negoziabile la natura scientifica della medicina, quindi il diritto ad essere curati in modo adeguato non appropriato
Insomma quando i valori fondamentali in ballo, con la sanità, diventano per qualsiasi ragione valori potestativi o comunque valori subordinati alle scelte politiche del governo in carica, allora la lesione all’interesse del cittadino e della collettività, ma anche la lesione alla forma solidale della nostra convivenza sociale, diventa così forte da rendere necessario esplicitare, in tutte le forme consentite, un dissenso e una protesta. Quindi agire con decisione una conflittualità.
Personalmente, oggi, cioè da subito soprattutto dopo il Def appena approvato, io farei uno sciopero contro il governo Meloni ma non perché ha richiamato in servizio i tagli lineari e il blocco delle assunzioni ma perché le sue politiche circa la sanità, con la scusa della super crisi, mettono in discussione dei valori e dei beni
assolutamente non negoziabili prefigurando di fatto una forma di convivenza sociale sempre più darwiniana.
Ora sostituire Beveridge con Spencer, a partire dalla sanità, non è una cosa marginale di poca importanza. Ma soprattutto non è una cosa che il sindacato, di qualsiasi razza esso sia, possa ignorare. Sostituire oggi le regole della solidarietà e dell’universalismo, quelle quindi dell’art. 32 e della legge 833, quindi le regole del diritto, con i principi darwiniani della selezione naturale, dove chi seleziona - cioè chi distribuisce vantaggi e svantaggi - è soprattutto il reddito delle persone, cioè il grado di ricchezza o di povertà, è un bel ribaltone che meriterebbe secondo me sul serio un bello sciopero generale.
Faccio notare di sfuggita che la proposta di regionalismo differenziato a ben guardare ha una forte natura darwiniana e che questa natura, non a caso, ha rapporti con il reddito prodotto in una regione.
Che oggi in sanità il reddito stia prendendo il posto del diritto non è per niente una novità.
La Favo ci ha appena detto che un cittadino malato per curarsi dal cancro spende oltre 1.800 euro all’anno di tasca propria per esami, visite e terapie e per pagarsi eventualmente l’alloggio e il viaggio se dovesse essere costretto a curarsi fuori dalla sua regione. (Qs 14 aprile 2023).
La Ragioneria dello Stato ci ha detto che nel 2021 la spesa sanitaria complessivamente è stata quasi 164 miliardi di euro, di cui oltre 37 spesi per prestazioni out of pocket” (OOP) cioè prestazioni comprate direttamente dal privato di tasca propria (Qs 14 novembre 2022).
Tutti gli studi sull’OOP ci dicono che i redditi privati ormai compensano le carenze e le inefficienze nelle offerte sanitarie pubbliche e che il loro aumento costante è legato alle patologie più frequenti, patologie che diventano, in questo modo, indicatori della scarsa qualità delle cure ricevute nel pubblico e della scarsa equità del sistema pubblico. Cioè indicatori del basso grado di pubblicità del servizio pubblico.
Pochi giorni fa uno studio di Mediobanca ci ha informati che i ricavi della sanità privata in particolare quelli della grossa ospedalità (S. Donato, S. Raffaele, Gruppo Villa Maria, Segesta, Fondazione policlinico Gemelli, ecc.)hanno superato, alla fine del 2022, i 9 mld e sono in continua crescita.
Ma tutti questi soldi da dove vengono? Di sicuro non dai redditi medio bassi ma da quei redditi che si possono comprare, anche con il welfare aziendale, delle tutele private aggiuntive.
Solo l’anno scorso oltre 4 milioni di italiani, cioè il 7% della popolazione ha rinunciato a curarsi pur avendo diritto teoricamente ad un servizio pubblico perché non aveva reddito sufficiente per pagarsi l’assistenza privata.
A parte qualche briciola al fondo sanitario prevista dal Def per il prossimo anno il governo Meloni conferma i tagli lineari alla sanità già programmati conferma i tetti alle assunzioni e gli sgravi fiscali alla sanità privata, quindi, conferma l’idea di affidare al reddito la funzione di selezionare darwinianamente i bisogni di salute della nostra popolazione.
Con ciò accettando la realtà che milioni di persone non abbienti possano abbandonare le cure.
La sanità dice il Def è destinata a scendere: dal 7,1% del pil al 6,2%nel 2025 mentre la media Ocse è il 12%.
Forse a questo punto sempre pensando al sindacato, oltre alle ragioni per fare sciopero che riguardano i valori non negoziabili come i diritti, vi sono anche specifiche ragioni sindacali ma che riguardano la funzione del welfare, in questo caso della sanità pubblica, nel distribuire il reddito nel nostro paese e nel distribuire soprattutto le diseguaglianze cioè gli svantaggi e i vantaggi sociali.
Il governo Meloni definanzia la sanità pubblica e usa la sanità privata per dare e togliere cioè per praticare darwinianamente una precisa distribuzione del reddito all’insegna dell’iniquità.
La misura relativa al cuneo fiscale quantificata in 3 mld, difronte ai dati della Favo, difronte alla rinuncia alle cure, difronte al fenomeno dell’out of pocket, è palesemente la foglia di fico per nascondere l’indecenza di politiche apertamente contro i diritti e apertamente a favore dei più forti, non dei più deboli.
Ma questo basta o no al sindacato per proclamare uno sciopero per la difesa della sanità pubblica e per la difesa della distribuzione equa dei redditi in questo paese?
Ivan Cavicchi