La crisi del servizio sanitario nazionale è un tema che raccoglie sempre più attenzione nei mezzi di comunicazione, senza che, il più delle volte, si chiarisca che essa è, in realtà, la crisi di un’intera società, di un modello di convivenza tra esseri umani, di una fonte essenziale di giustizia, di coesione sociale. Si tratta di un problema che richiede chiaramente soluzioni altamente tecniche, ma che non può al contempo più ridursi al mero tecnicismo: occorre una risposta culturale, valoriale, sociale, fondativa.
Per fortuna continuano a sorgere, nel dibattito sia medico-scientifico sia filosofico-politico, posizioni di merito, tentativi che chiameremmo di restituzione delle parole alle cose, sebbene, sembrerebbe, in forma del tutto inascoltata dagli assetti politici istituzionali, forse affaccendati nella frenetica attività di campagna elettorale permanente che ha connotato l’intera storia della cosiddetta seconda Repubblica: la Repubblica dei partiti interclassisti, ideologicamente agnostici, mediaticamente sovraesposti e perciò organizzati come comitati elettorali in perpetuo.
Tra questo tipo di contributi che mi piace definire “di riappropriazione semantica” si pone l’ultima fatica di Ivan Cavicchi (Sanità Pubblica addio. Il cinismo delle incapacità, Castelvecchi 2023) che apre in modo chiaro la questione della storia fattuale del progressivo abbandono, e della potenziale distruzione, di quello che fu lo spirito che, attraverso la legge 833 del 1978, ha istituito in questo Paese il Servizio Sanitario Nazionale.
Dei diversi spunti di questo lavoro mi pare importante, in questa sede, sottolinearne almeno due, uno caro a Cavicchi e l’altro di nuova introduzione; il primo dei due concetti, che l’autore ripete da anni nei suoi numerosi interventi nel dibattito pubblico, è quello di “invarianza delle contraddizioni”, che credo possa più o meno essere inteso come segue: la permanenza costante delle diseguaglianze di salute attraverso tre decenni di politiche sanitarie, ora di centrodestra e ora di centrosinistra (per la verità soprattutto di centrosinistra).
L’esempio cardine di questa invarianza si trova facilmente in quella che Cavicchi definisce “la grande marchetta”: la progressiva e costante cessione di parti di servizio sanitario al privato e quindi alla logica del profitto, che comporta a sua volta un progressivo allontanamento dall’idea dell’esigibilità universale della salute stessa, specialmente da parte delle parti più fragili della società, che non possono pagare assicurazioni integrative, né prestazioni intramurarie, che non sono inserite nel tessuto produttivo e nelle forme burocratiche della società e restano quindi vittime predestinate delle estenuanti liste d’attesa, dei buchi di sistema, delle insufficienze dei servizi; si tratta di una vicenda deprecata da tutti ma a cui poi, nelle sue dinamiche di fondo, non si è sottratta, e non dichiara neppure di volersi sottrarre in linea di principio, in effetti, nessuna forza politica tra quelle attualmente presenti nell’intero panorama nazionale.
Da questo punto di vista il piano del discorso è talmente fattuale, la trasversalità talmente oggettiva, da non permettere di non concordare con l’autore. Esiste, tuttavia, un piano teorico più profondo e quella di Cavicchi è una penna troppo culturalmente avvertita per non esserne consapevole. La contraddizione di cui l’autore parla è, a mio modo di vedere, essenzialmente assimilabile, dal punto di vista teorico, quella che la tradizione socialista asiatica ha definito “contraddizione antagonistica”: l’impossibilità di conciliare in un singolo processo politico interessi strutturalmente divergenti, nel caso di fattispecie l’aspirazione universale alla salute e l’aspirazione di piccoli, ancorché potenti, gruppi sociali al profitto. Possiamo forse utilizzare, per chiarire questo punto di vista, una frase di Han Fei, filosofo cinese del III secolo avanti Cristo, che i marxisti asiatici amano citare: “Uno scudo che non può essere trafitto e una lancia che può trafiggere tutto non possono esistere nello stesso mondo”.
Ma chi sono, fuori di metafora, la lancia e lo scudo?
Si riesce a ricondurre abbastanza facilmente l’immagine della lancia all’etica del capitalismo così come tratteggiata da Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo: l’ethos, e se vogliamo, come ha recentemente sottolineato anche Massimo Cacciari, anche l’epos del capitalismo consistono essenzialmente nell’idea combinata dell’enfatizzazione del singolo individuo e delle sue aspirazioni materiali (un singolo individuo astratto, homo faber idealizzato, sia ben chiaro) e del profitto e del perpetuo reinvestimento del profitto nella creazione di nuovo profitto, come terreno della sua realizzazione; una realizzazione che non conosce un confine al di fuori di sé stessa sicché il capitalismo stesso non riconosce un valore se non puramente secondario a tutto ciò che si pone su un piano extraeconomico nel senso sopra descritto.
In tal senso il capitalismo rappresenta effettivamente quella che è stata definita “la fine dei fini”: non avendo il profitto un fine al di fuori di sé stesso, relegando di conseguenza tutti i valori non economici allo spazio dei valori secondari, inessenziali, l’etica del capitalismo si pone effettivamente come la lancia che vuole trafiggere tutto, trasformando il vincolo economico in fine autoconsistente di qualsiasi politica. Non fa, e non può dal punto di vista logico fare, eccezione il tema della salute.
Dall’altra parte si trova lo scudo, uno scudo che non vuole e non può essere penetrato: è il modello umanista e ambientalista della società, è il modello del socialismo. Non vuole e non può essere penetrato perché qui la dimensione umana, singolarmente e collettivamente presa, e anche nella sua interazione con l’ambiente, è il fine a cui tutta la storia economico-politica deve essere piegata. Basta rileggere la Critica alla filosofia del diritto di Hegel che Marx scrisse tra il 1842 e il 1843 per vedere come il socialismo si pone come “la dottrina per cui l'uomo è per l'uomo l'essere supremo, dunque con l'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono meglio raffigurare che con l'esclamazione di un francese di fronte ad una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come uomini!”.
Da tale prospettiva è il valore economico a essere ricacciato tra i valori secondari: lo scudo del valore intrinseco dell’essere umano non può logicamente e non vuole fattualmente essere penetrato.
La contraddizione antagonistica si chiarisce dunque in questa incomponibile antinomia: in ultima analisi pensare la salute quale valore primario è possibile solo all’interno dello scudo umanista; diversamente, all’interno della lancia dell’etica del capitalismo, la si può pensare solo quale luogo di profitto tra gli altri luoghi di profitto. Una composizione è strutturalmente aporetica.
In questa chiave si intende meglio il concetto di metavalore che Cavicchi introduce in riferimento alla salute: un valore che ha bisogno di azioni estrinseche per essere reso diritto. Ma quali sono le azioni che lo rendono diritto? Sembra inevitabile pensare che esse consistano nell’apertura della contraddizione antagonistica, nello scacco da parte dello scudo umanista alla lancia dell’etica capitalista, per la semplice ragione che il metavalore “salute” è un valore umanistico extraeconomico.
Se caliamo il concetto teorico della contraddizione nella dimensione pratica della promozione della salute come bene primario esso acquista corpo sia storico che fattuale in luogo di perderlo.
La nascita stessa degli studi di sanità pubblica, tra le sue radici, ne riconosce una precisa nel pensiero anticapitalista: la prima e maggiore opera marxista sulla sanità è La situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels; gli studi pioneristici di Rudolf Virchow, padre nobilissimo degli studi di salute pubblica, sulle infezioni, sull’epidemiologia e sulla “medicina sociale” (termine che è entrato nel gergo scientifico proprio grazie a lui) apparirono proprio in seguito alla pubblicazione del libro engelsiano sulle condizioni della classe lavoratrice e lo stesso Virchow riconobbe esplicitamente l’influenza di Engels sul suo pensiero.
Una lunga e solida tradizione storica ha posto le discipline di salute pubblica come luogo di impegno sociale del medico per eccellenza e, di frequente, come luogo di lotta politica in chiave anticapitalista. Quando Giulio Alfedo Maccacaro, forse il vero grande ispiratore culturale della legge 833 del 1978, scriveva che “l’unico modo di autenticare la scienza è che questa corrisponda all’interesse dell’uomo: l’uomo individuale e l’uomo collettivo.
Non può, quindi, la scienza, operare mai contro l’uomo” e “nel momento in cui la necessità scientifica diventa una necessità disumana, la scienza si ferma”, ponendo al contempo l’accento sui determinanti sociali dello stato di salute e sulla medicina come “prassi di trasformazione della società”, come patrimonio della collettività “e in primo luogo dei lavoratori”, si poneva esattamente nell’ottica dell’evidenziazione della contraddizione antagonistica tra interessi del capitale e salute come bene primario e diritto fondamentale. Possiamo forse pensare alla legge 833 del 1978 come all’ouverture di una sinfonia che si poneva lo scopo ambizioso di una controspinta umanista in una società dominata dall’etica del profitto. Un risultato enorme e forse difficilmente ipotizzabile solo qualche decennio prima.
Perché, quindi, la lunga serie di controriforme, formali o fattuali, del Servizio Sanitario Nazionale? Perché la permanenza della contraddizione invariante della diseguaglianza in termini di diritto alla salute? Perché la “grande marchetta” di cui parla Cavicchi? E perché, infine, il massiccio coinvolgimento delle forze “progressiste” o di “centrosinistra” che dir si voglia in questo processo, spesso con ruoli di assoluto e zelante protagonismo?
Su questo sento di concordare pienamente con lo spirito del libro di Cavicchi: semplicemente perché il quadro politico nel suo complesso, e forse spiccatamente una ex-sinistra ansiosa di accedere alle stanze del potere dopo il crollo dei regimi socialisti dell’est, e non di rado perciò pervasa dello zelo conformistico e delle doppiezze dialettiche dello schiavo liberto che vuole fare carriera nella corte imperiale, si è tutta posta nell’ottica delle compatibilità.
In particolar modo si è posta nella ricerca attiva, conseguente e progressiva, di un terreno di compatibilità tra i due membri dell’antinomia, della contraddizione antagonistica che abbiamo brevemente esaminato sopra: l’etica umanista del diritto alla salute come bene primario e l’etica capitalistica del profitto; in tale, fragile, posizione, la composizione impossibile non poteva che estrinsecarsi, nella pratica, in una serie di arretramenti fattuali rispetto alla pressione delle esigenze del profitto.
Lo scudo si è fatto penetrare dalla lancia, per utilizzare la metafora proposta sopra nel testo, e il tema della contraddizione si è ricomposto di volta in volta, da un lato nella cessione di diritti davanti a valori economici e, dall’altro, nelle vuote retoriche elettoralistiche. Ma mentre la società si è spinta sempre più avanti nel depauperamento del diritto alla salute dove è andata la comunità scientifica? Sorprendentemente, la comunità scientifica ha mantenuto viva la contraddizione che la politica ha abbandonato.
Il campo degli studi di salute globale (Global Health, per gli autori anglosassoni) ha riproposto con energia una visione concettualmente forte del concetto di salute, configurandola come obiettivo appunto globale o, se si vuole, internazionalistico (per utilizzare un vecchio lessico) e aprendo una nuova fase di studi sulle diseguaglianze in salute e sui determinanti sociali dello stato di salute.
Lo studio dei determinanti sociali di salute ha a sua volta prodotto una letteratura scientificamente solidissima, quantitativamente sterminata e contenutisticamente convergente che ha dimostrato, e continua a dimostrare ogni giorno, quanto sia fondamentale il ruolo dei determinanti sociali stessi nella produzione di salute, quanto sia preciso e costante il nesso tra diseguaglianze sociali e depauperamento della salute stessa, malattia, mortalità; quanto, la promozione dello stato di salute, un diritto non teorico alla salute, richiedano una lotta attiva alle diseguaglianze e quindi una completa riconfigurazione degli assetti sociali dati. Si tratta, come si suol dire, di un fatto ormai acclarato, non dell’opinione di qualcuno.
Contemporaneamente, il concetto di One Health, ha posto in modo fortissimo il nesso tra salute umana, salute animale e salute ambientale, anche qui mostrando con chiarezza cristallina e oggettività indiscutibile, l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, degli attuali assetti sociali, dal punto di vista della salute e della stessa futura sopravvivenza della specie umana e dell’equilibrio del pianeta.
Un’arretrata visione ospedalocentrica, bioriduzionista ed economicistica della salute sta cedendo scientificamente il passo davanti a una visione sociale della stessa, chiarendo che la produzione di salute come bene primario, come diritto inalienabile dell’individuo e come ricchezza sociale, richiede un completo ridisegno della società nel suo complesso, dei suoi modelli produttivi e di sviluppo, delle sue interazioni interne e con l’ambiente; il modello culturale della medicina basata sull’evidenza scientifica, da molti ingiustamente accusato di essere funzionale al potere, ha invece riarmato, per così dire, lo scudo di una prospettiva umanista contro la lancia dell’etica del profitto.
Non sembra che la politica istituzionale data in questo momento possa né voglia, al di là di periodici quanto innocui rinnovamenti di facciata, farsi carico fino in fondo della sfida: non può e non vuole per ragione costitutiva, perché il suo sviluppo storico e il suo radicamento sociale (ormai sempre più scarno, nello scenario di un astensionismo di massa che nessuno sembra prendere sul serio) sono tutti interni all’ordine delle compatibilità e, in tal senso, continuano ad autoriprodursi in loro funzione, tanto quanto è ipotizzabile che, per come sono configurati in questo momento, perderebbero ragione di esistere difronte alla loro crisi.
Un’immobilità materiale cui segue una diluizione culturale.
Gli ultimi decenni di vita culturale e politica italiana sono stati caratterizzati da un progressivo deterioramento del rapporto tra la parola e la cosa: l’aggettivo “socialista” è stato via via sostituito dalle locuzioni “di sinistra”, “progressista”, “democratico”, in un continuo slittamento semantico che culmina nella reductio ad nihilum di qualsiasi presa dei concetti sulla realtà, di qualsiasi denotazione; i nuovi e meno nuovi protagonisti della vita civile italiana, progressisti senza precisa definizione di progresso, innocui democratici in uno stato già formalmente democratico, latori dell’idolatria del cambiamento in assenza di definizione puntuale dell’oggetto da cambiare e delle modalità del cambiamento stesso, stanno alle filosofie politiche come le ombre cinesi alle mani che le producono: simulacri ingannevoli e vagamente inquietanti di oggetti che sono altro. Ciò che essi realmente sono, invece, nell’assenza, non dico di una critica sistematica della società attuale e dei suoi rapporti di forza, ma almeno di un punto di vista non generico su di essi, sono le ombre variopinte di un oggetto che è una passiva accettazione, il più delle volte evolventesi in accanita difesa di retroguardia, dello status quo.
Perfino l’aggettivo “riformista”, abusato nell’adiacente campo “moderato”, ma derivante da una precisa storia filosofico-politica, si è trasformato in una coperta di Linus per una generica, si direbbe quasi neurotica, cupio legiferandi, per una specie di bulimia di riorganizzazione degli assetti sociali a contraddizioni invarianti, gettando così al macero un lungo corso di pensiero politico ben determinato.
Il tema della salute non ha fatto eccezione: i proclami dominanti si limitano a parlare genericamente di sanità pubblica, quasi fosse un concetto politico e non un mero lemma tecnico (vale appena la pena di ricordare che anche la sanità statunitense, tra i più privatistici sistemi al mondo, è tecnicamente un sistema di sanità pubblica); nella migliore delle ipotesi ci si spinge a parlare di “sanità veramente per tutti”, concepita, in assenza di definizioni di merito, in termini puramente retorici, come se, sul piano della retorica, ci fosse qualcuno che invece acclama una salute solo per alcuni. Simulacri di avversari dialettici per simulacri di pensieri politici. In gergo popolare: l’opera dei pupi.
Si tratta di uno stato di immobilismo contro cui occorre squarciare pirandellianamente il cielo di carta, generare una risposta in primo luogo sociale, democratica, nonviolenta ma al contempo rigorosa a partire dal bisogno di salute interno alla società stessa, ridare la capacità all’istanza sociale di aprire le porte chiuse del palazzo e portare nuove energie, nuove idee, nuova proposta politica.
Bisogna dunque guardare ai laboratori sociali e politici che in questi anni si sono manifestati nel mondo (si pensi solo a titolo di esempio al Sudamerica) e tornare a fare della salute il principale campo di lotta politica e civile, con l’obiettivo di mantenere aperta e rendere sempre più stringente la contraddizione, affinché questa dimensione apra una via di trasformazione che superi gli attuali assetti di immobilismo istituzionale, che costituisca una controspinta definitiva alle attività lobbistiche, agli scenari di compatibilità, e riaffermi il diritto alla salute come bene primario non negoziabile, come ricchezza sociale fondamentale, come scudo che non vuole e non può essere penetrato dalla compatibilità con il profitto, con l’interesse particolare.
Mi si lasci parafrasare Marx dicendo, si parva licet componere magnis, che nulla c’è da perdere se non l’ingiustizia sociale, l’irrazionalità, l’assenza di fini e, con esse, la degradazione, l’esclusione, la malattia, la morte evitabile dei molti, dei troppi.
Marcello Montibeller
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